Conversazione con Vincenzo Colla, assessore alla formazione, green economy e lavoro dell’Emilia Romagna

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10 novembre 2020
Assessore, la sua Regione come ha reagito alla crisi da Covid-19? E la fase di ripartenza?
La pandemia ha portato ad una contrazione del sistema economico in tutto il mondo, con un blackout di domanda e offerta che ha avuto un impatto immediato e drammatico senza precedenti nella storia. In 3 mesi abbiamo perso quello che nella crisi del 2008 avevamo perso in 5 anni. Tra marzo e aprile in Emilia-Romagna abbiamo avuto 1 milione di persone in cassa integrazione, 2 milioni e mezzo di persone chiuse in casa e 250 mila imprese chiuse. L’ultimo dato ci parla di oltre 300 milioni di ore autorizzate tra gennaio e agosto, fra cassa integrazione e fondi di solidarietà. Numeri impressionanti. Fortunatamente gli ammortizzatori sociali (complessivamente l’Emilia-Romagna per la Cig ha stanziato 330 milioni di euro) hanno funzionato contenendo le perdite di occupazione e garantendo la coesione sociale. Dal 4 maggio questa regione ha reagito subito, prima rimettendo in moto le imprese e poi riaprendo tutte le altre attività. C’è stata una crescita sia nei numeri dell’economia che in quelli delle persone rientrate al lavoro. Oggi, inutile negarlo, stiamo gestendo ancora una fase difficile e per aiutare le imprese costrette nuovamente alla chiusura a causa di questa ultima recrudescenza del virus, la Regione Emilia-Romagna ha stanziato altri 10 milioni di euro. Ora dobbiamo utilizzare questo tempo per progettare la ripresa nel medio e lungo periodo. Sicuramente dobbiamo far ripartire il mercato interno - e da questo punto di vista gli ecobonus e sismabonus al 110% rappresentano un ottimo provvedimento che potrà essere un volano per intere filiere, dal legno al ferro, dalla chimica alla logistica - così come vanno sbloccati in fretta i cantieri delle grandi opere, che a loro volta rimettono in moto anche terziario e servizi come alberghi o ristoranti.
Siamo consapevoli che dovremo prepararci a gestire momenti difficili, ma nel 2021 il rimbalzo ci sarà. Non si tratta di fare gli ottimisti o i pessimisti. Non dico che nel 2020 non avremo perdite, anche occupazionali, ma dobbiamo attrezzarci per ripartire il prossimo anno con le imprese e i lavoratori al loro interno. Non dimentichiamo che siamo di fronte ad un fatto inedito: la grande politica keynesiana dell’Europa con il Recovery fund, la Bce che acquista titoli, i fondi del prossimo sessennio 2021-2027... Dobbiamo avere chiaro il contesto in cui stiamo operando e fare a monte una discussione strategica per pianificare bene come muoverci e non perdere nemmeno un euro. In questo “corpo a corpo” con il virus non dobbiamo mai perdere di vista la capacità di progettare il nostro futuro.
Sul Recovery a suo avviso quale dovrà essere il ruolo delle regioni, anche su temi che lei segue come la Green Economy e l’Innovazione industriale dei Big data?
Sono fermamente convinto, come ha avuto modo di dichiarare più volte anche il presidente Bonaccini, che le Regioni debbano avere una parte attiva nella destinazione e impiego dei fondi europei del piano Next Generation EU. Nessuno meglio delle Regioni può conoscere il territorio e le priorità di intervento, così come i progetti immediatamente cantierabili che possono rientrare fra quelli finanziabili dall’Unione Europea. I 209 miliardi che arriveranno dall'Europa andranno spesi bene e in fretta, dato che ci viene richiesto di impegnare il 75% delle risorse già nei primi due anni.
Quindi, non solo la progettazione e programmazione, ma anche la gestione e il controllo “ravvicinato” da parte delle Regioni rappresenta un vantaggio, dal momento che ogni euro che l’Europa ci darà dovrà essere dettagliatamente rendicontato, pena l’interruzione dell’erogazione dei fondi.
Ci può descrivere lo strumento del Patto per il lavoro, descrivendo per esempio il suo modello operativo come descritto nella ricerca della Fondazione IRS0?
Il Patto per il lavoro è uno strumento di pianificazione concertata, che coinvolge tutti gli attori impegnati a progettare il futuro del territorio. Il nuovo documento, che stiamo definendo proprio in questi giorni, si chiamerà Patto per il Lavoro e per il Clima, a sottolineare il fatto che lo sviluppo non può prescindere dalla sostenibilità ambientale, così come da quella sociale, e confermando così che l’Emilia-Romagna intende muoversi nel solco dei “goals” indicati dall’Agenda 2030 dell’ONU. La forza del Patto deriva dalla capacità, splendida in questa regione, di mettere attorno ad uno stesso tavolo i rappresentanti degli enti locali, le associazioni di categoria, le Università, professionisti e tecnici, con l’obiettivo di giungere ad una sintesi condivisa che sia la guida dell’azione politica dei prossimi anni. È un atto di democrazia e responsabilità condivisa che impegna tutti ad agire in maniera conseguente, contribuendo ognuno per la propria parte. Il patrimonio di questo territorio non è quello di imprese nel deserto, ma di un territorio che si fa sistema. Per fare un buon prodotto servono il sapere, le persone, le competenze. Quindi serve l’istruzione, servono amministrazioni locali in grado di progettare, servono servizi, sanità, organizzazioni sindacali in grado di fare mediazione, associazioni con forza di rappresentanza. Sono sicuro che, se saremo in grado di gestire il cambiamento con questa consapevolezza, saremo in grado non solo di starci dentro, ma anche di esserne parte attiva, creando buona occupazione e portando avanti in maniera importante la cultura dell’ambiente
E gli altri strumenti messi in campo dalla Giunta del Presidente Bonaccini?
Posso dire che il Patto in realtà sintetizza tutte le azioni strategiche che questa amministrazione metterà in campo nel quinquennio. Del Patto farà parte ad esempio il Piano Energetico Regionale, che detterà le linee di intervento per la decarbonizzazione, il risparmio energetico, la rigenerazione urbana, l’implementazione della produzione di energia da fonti rinnovabili, la promozione di un’economia circolare fondata su riciclo e riuso. Anche la formazione ha un ruolo fondamentale: deve essere in grado di dialogare con imprese e territorio per sgonfiare la bolla di povertà. Ci serve un New Deal delle competenze tecnico-scientifiche per rispondere ai cambiamenti che questi tempi ci impongono. Vogliamo ad esempio creare “passerelle” fra istituti tecnici e lauree professionalizzanti, che accompagnino i giovani nel conseguimento di competenze utili per il nostro ecosistema delle imprese e ne favoriscano così l’inserimento lavorativo. Vogliamo migliorare le azioni di aiuto alle fasce più deboli, in una riconversione per il reinserimento o il miglioramento della posizione lavorativa.
Faremo un grande investimento sulla digitalizzazione, sostenendo le imprese che investiranno in tal senso e implementando le infrastrutture di connessione per non lasciare indietro nessun territorio. I Big Data e l’intelligenza artificiale saranno sempre più alla base dell’economia e della società e a Bologna sta per sorgere la più importante cittadella di calcolo italiana – e fra le più importanti in Europa – che sarà al servizio di tutto il territorio regionale e nazionale.
I cambiamenti sono tanti e sono veloci. Se per la prima rivoluzione industriale ci sono voluti 60-80 anni, le rivoluzioni successive hanno accorciato i tempi e oggi i cambiamenti si realizzano nell’arco di pochi anni. Dobbiamo essere pronti a cogliere tutte le opportunità della nuova rivoluzione digitale, ma avere anche un modello di governo sociale delle tecnologie, per non creare nuove bolle di povertà. Dobbiamo trovare la giusta mediazione fra innovazione tecnologica ed esigenze di umanesimo. Si dice che il mondo che uscirà da questa pandemia non sarà più uguale a prima. È vero: nel “mondo dopo”, per dirla alla Morin, dovremo imparare ad agire da “comunità planetaria” seguendo un nuovo modello culturale più “green”, inclusivo e solidale.

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