Dal 1985 in Colombia otto milioni di contadini sono stati desplazados, sradicati e cacciati dalle loro terre per mano di militari e paramilitari; decine di migliaia di persone, fra oppositori, sindacalisti e difensori dei diritti umani, sono state fatte sparire; civili innocenti, a migliaia, sono stati rapiti, torturati, uccisi e travestiti da guerriglieri – i falsos positivos – in modo da presentarli come terroristi o membri della guerriglia morti durante uno scontro con l’esercito.
Dietro a tutto questo ci sono gli interessi economici di narcotrafficanti, proprietari terrieri e multinazionali, oltre a quelli dei politici troppo spesso in combutta e in affari con la grande criminalità, il cui obiettivo è quello di mantenere un eterno stato di caos.
I morti non parlano, di Flavia Famà, pubblicato da Villaggio Maori Edizioni (284 pp., 16 €) con la prefazione di Nando Dalla Chiesa, nato da un viaggio in Colombia della stessa autrice, è un volume che mette insieme ricostruzione storica degli eventi ed empatia verso coloro che hanno subito ogni genere di vessazione in una guerra impari che ha visto da una parte stato, esercito, partiti di estrema destra, paramilitari, guerriglieri, servizi segreti e dall’altra il popolo inerme: i desplazados, appunto, gli oppositori politici e persino comuni cittadini.
Con l’aggravante, come fa notare Dalla Chiesa nella sua prefazione, che in Colombia, a differenza di altri paesi dell’America Latina, almeno formalmente non c’è una dittatura. Approfondito e minuzioso il lavoro di Famà, che ricostruisce tutti gli aspetti storico-politici di questa vicenda lunga oltre settant’anni, a partire dalla nascita del conflitto armato, dai primi negoziati di pace e dall’omicidio, nel 1948, del candidato alle elezioni presidenziali, Jorge Eliécer Gaitán, sostenitore di una riforma agraria per redistribuire le terre incolte ai contadini e difensore dei diritti dei lavoratori, il cui assassinio potrebbe essere stato ordinato dal Partito conservatore oppure dagli Stati uniti, con il duplice obiettivo di tutelare gli interessi delle multinazionali che in Colombia avevano le loro sedi e soprattutto di scongiurare il «pericolo» comunista.
Famà analizza le cause che hanno portato alla nascita di gruppi guerriglieri e i tentativi di pace di frequente sabotati da chi aveva interesse a mantenere il caos (ancora una volta, paramilitari, politici corrotti, narcos, multinazionali), ma ci racconta anche con delicatezza e partecipazione le storie di vita di persone i cui familiari sono stati uccisi o che sono state perseguitate e torturate e che in alcuni casi adesso sono impegnate in associazioni per tenere viva la memoria.
Un «esercizio», questo, che l’autrice conosce bene: figlia dell’avvocato Serafino Famà, assassinato a Catania dalla mafia nel 1995, ha aderito a Libera – l’associazione antimafia fondata da Luigi Ciotti e presieduta proprio da Nando Dalla Chiesa – e da tempo porta la propria testimonianza nelle scuole per sensibilizzare docenti e ragazzi contro la criminalità organizzata. Sempre con Libera ha compiuto alcuni viaggi in America Latina, fra i quali quello in Colombia che ha ispirato questo libro e cementato la scelta dell’autrice di trasformare la memoria personale in impegno concreto.