"Inqualificabili le parole di Fabio Franceschi, che non ha imparato nulla dai fatti gravissimi avvenuti in Grafica Veneta" è la replica della Cgil di Padova alle dichiarazioni del "padron" dell'azienda padovana.

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20 ottobre 2021

A luglio del 2021 le cronache giornalistiche e giudiziarie riportarono con minuzia di particolari l'inchiesta che aveva posto sul banco degli imputati l'azienda padovana "Grafica Veneta". L'accusa era gravissima. Si trattava di caporalato e sfruttamento del lavoro in una forma che limitava le libertà fondamentali delle vittime.

Da quanto emerso dalle indagini, Grafica Veneta si è avvalsa per anni della cooperativa “B.M. Services” di Lavis (Trento), gestita da Arshad Mahmood Badar e dal figlio Asdullah, entrambi pakistani, che si occupavano della gestione criminale del loro personale. Entrambi sono finiti in carcere con l’accusa di lesioni, rapina, sequestro di persona, estorsione e sfruttamento del lavoro.

I due pakistani avevano 35 lavoratori alle loro dipendenze che lavoravano e vivevano in condizioni inaccettabili: ammassati in due case, prelevati alle 5 del mattino per essere impiegati 12 ore al giorno, non avevano pausa pranzo e disponevano di una paga da fame: 4,5 euro all’ora. Come spesso peraltro capita, a fine mese erano costretti a pagare un affitto, tra i 150 e i 200 euro, per il posto letto, senza possibilità alcuna di ribellarsi.

In realtà, nel maggio del 2020, undici lavoratori hanno provato a far valere i loro diritti, ma sono stati rapiti, picchiati, spogliati di ogni bene e abbandonati nei paesi vicini, imbavagliati e legati. Proprio il ritrovamento di uno di questi lavoratori ha fatto scattare le indagini.

Il Procuratore di Padova Antonino Cappelleri dichiarava: "Qui non c’è soltanto la vicenda del caporalato che viene posta in essere in maniera molto cinica da datori di lavoro pakistani che offrono manodopera e determinati servizi ad aziende italiane, ma anche la compartecipazione di quest’ultime a livello organizzativo, in quanto acquistano il servizio con consapevolezza e soprattutto palese corresponsabilità".

L’azienda veneta si è sempre dichiara estranea ai fatti. Tramite una nota, essa afferma che: "Grafica Veneta ha preso atto con rammarico e sorpresa delle notizie su un suo coinvolgimento nell’inchiesta denominata Pakarta". Precisando che "la società che gestiva l’appalto è interessata di altri analoghi appalti non solo in Veneto ma anche in altre regioni del Nord Italia. Infatti le prestazioni di Bm in favore di Grafica Veneta rappresentano una modestissima parte del totale dell’ attività svolta proprio nel settore grafico, da questa società. Grafica Veneta era del tutto all’oscuro di quanto sembrerebbe emergere dall’inchiesta".

Eppure, le intercettazioni hanno portato alla luce una situazione diversa. Non solo il caporalato ma una lunga serie di irregolarità da nascondere accuratamente. Persino le operaie che usavano macchinari che non avrebbero dovuto, istruite su che cosa devono dire in caso di un’ispezione. Ma anche il controllo dei cartellini che proverebbe turni da 16 ore. Il lavorare sotto stretta sorveglianza, senza scarpe antinfortunistiche né protezione per i rumori. Tutte violazioni e condizioni di cui, secondo il gip, Grafica Veneta era perfettamente a conoscenza.
I manager dell'aziende padovana, arrestati a luglio scorso proprio per sfruttamento del lavoro, hanno patteggiato sei mesi di carcere convertiti in 45mila euro di pena pecuniaria. Come dire: riconosciamo le nostre colpe e ci assumiamo la responsabilità delle nostre azioni davanti alla legge. Fabio Franceschi, patron (o "padron", forse sarebbe meglio scrivere) di Grafica Veneta, disse chiaramente a mezzo stampa di essere stato "colpito e addolorato dagli atti di prevaricazione" subiti dagli operai in subappalto e aveva annunciato di volerli risarcire di tasca propria con 220mila euro. Salvo fare dietrofront dopo poso dichiarare a La Stampa, che le accuse erano di fatto: “Un mucchio di falsità”. E quei cinque lavoratori lasciati a bordo strada, imbavagliati e con le mani legate? “Avevano la mascherina in faccia per calunniarci. Uno era vestito come uno zingaro“. Già questo basterebbe per avere il voltastomaco. Eppure non finisce qui. I pestaggi denunciati dai lavoratori pakistani sarebbero qualcosa di poco significativo, o almeno così lascia intendere ancora Franceschi quando dice: “Parliamo di prognosi di tre giorni”. In fondo qualche pugno in faccia e bastonata per qualcuno ha un sano effetto pedagogico. Secondo questa pedagogia padronale, anche l'olio di ricino e le bastonate sulle punta dei piedi insegnano come stare la mondo.

Ora arrivano una serie di pregiudizi che lasciano senza parola, a partire dalle abitazioni in cui vivevano i lavoratori pakistani. In fondo, “Loro sono un po’ così, pulizia e bellezza non è che facciano parte della loro natura. Comunque vivevano in otto in una casa grande, due in una stanza. Neanche male“.

Fin qui la cronaca. Ora arriva la beffa, che ovviamente riguarda i pachistani sfruttati sui quali precipita la scure di un sistema che prima li ha sfruttati e ora li considera soggetti da non assumere, perché proprio Franceschi afferma che: “Pakistani, nella mia azienda, non ne voglio più. Hanno litigato, si sono bastonati e ci hanno accusato di un mucchio di falsità. E in cinque anni non hanno imparato una parola di italiano”. E ancora: “Dicevano di lavorare 12 ore al giorno 365 giorni l’anno, cosa risultata falsa. Alcuni, con noi da pochi mesi, sostenevano di non venire pagati da tre anni. Siamo stati additati come schiavisti“. Sul fatto che i loro padroni li picchiassero, dice di non voler entrare nel merito, ma “visto come si sono comportati, è difficile fidarsi sul resto”. E perché allora i manager hanno scelto di patteggiare, di fatto ammettendo di aver commesso dei reati? “La nostra è un’azienda in grande crescita, che non può permettersi di restare concentrata su un problema risolvibile con una sanzione amministrativa. Hanno patteggiato su consiglio degli avvocati e ora sono di nuovo operativi”. Insomma, questione di immagine e di reputazione aziendale.

Giustamente dura la risposta della Cgil di Padova. Aldo Marturano, segretario generale della Camera del Lavoro padovana, definisce: "Inqualificabili le parole di Fabio Franceschi, che non ha imparato nulla dai fatti gravissimi avvenuti in Grafica Veneta". E ancora: "Alcuni cittadini pachistani che, dipendenti di una ditta in appalto, operavano per Grafica Veneta sono stati trovati legati e feriti ai bordi di una strada provinciale. Da lì è partita un'inchiesta della magistratura che ha rivelato un gravissimo fenomeno di caporalato, di violenza e di schiavismo. Quei lavoratori non solo subivano angherie da chi li ricattava fino al punto di privarli della libertà, ma si vedevano privati dei più elementari diritti anche dentro i locali dell'azienda di Trebaseleghe, dove svolgevano le loro mansioni. Il titolare di un'impresa leader del mercato dell'editoria a livello nazionale e internazionale, che ha visto due dei suoi più importanti collaboratori prima subire severe misure cautelari e poi chiedere il patteggiamento sulle accuse avanzate dalla procura di Padova, dovrebbe innanzitutto scusarsi: nella migliore delle ipotesi, per omessa vigilanza sulla qualità e serietà delle ditte in appalto e a proposito di quanto accadeva nella sua stessa impresa; nella peggiore, per aver fatto prevalere il profitto sulla legalità e sulla dignità delle persone. E dopo essersi scusato, tentare di rimediare all'enormità di quanto accaduto dando un'opportunità di riscatto alle vittime di reati odiosi. Fabio Franceschi non sta facendo nulla di tutto questo. Peggio, ha assunto - in un'intervista a "la Stampa" - posizioni auto assolutorie in palese contraddizione con l'atteggiamento processuale e ha pronunciato parole indegne per un importante protagonista del sistema economico di un paese civile, ma anche per un semplice cittadino di una Repubblica democratica. Per lui, vittime e carnefici sono sullo stesso piano. Non ci sono schiavisti e schiavi, né caporali e lavoratori sfruttati, ma pachistani che "si sono bastonati tra di loro". E per evitare che riaccada, la sua ricetta è la discriminazione nelle assunzioni di chi non è "autoctono", di chi è "straniero". Ma queste sono solo due perle, tra le tante oscenità che ha pronunciato: tra una minimizzazione delle lesioni che sono state commesse ai danni delle persone, la colpa di chi era vestito "come uno zingaro", e giudizi igienici ed estetici verso chi, secondo lui, non contempla nella sua cultura "bellezza e pulizia". La prima domanda che sorge spontanea è se abbia mai sfogliato qualcuna delle opere che pubblica o se per lui stampare libri o produrre qualunque altro bene, sia la stessa cosa. C'è poi da chiedersi se il mondo della cultura, non solo italiana, abbia qualcosa da eccepire su questo atteggiamento. Perché un simile comportamento non può essere un problema solo per il sindacato, ma dovrebbe interrogare e inquietare l'intera società. Come sindacato, innanzitutto valuteremo quali sono le vie legali da intraprendere per chiedere conto di affermazioni che buttano sale sulle ferite di chi ha subito sulla propria pelle crimini intollerabili. E in secondo luogo, non lasceremo nulla di intentato per far valere fino in fondo i diritti di persone che hanno come unica colpa quella di essere in un tale stato di necessità da cadere facili prede di personaggi senza scrupoli".

Rispetto a quanto dichiarato dalla Cgil di Padova, Tempi Moderni non può che impegnarsi ad approfondire, raccontare ed indagare le attività di reclutamento illecito, discriminazione e sfruttamento che colpiscono lavoratori e lavoratrici, soprattutto immigrati, in qualunque settore lavorativo. E nel contempo stare dalla parte degli sfruttati e non di arroganti padroni di stampanti e fotocopiatrici che pensano di essere grandi editori e soprattutto di vivere al di sopra della Costituzione, dei lavoratori e della legge in generale.

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