Jihad o povertà? Cosa c'è dietro il terrorismo in Africa

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17 gennaio 2022

Cosa c’è dietro l’adescamento di giovanissimi nei gruppi armati della variegata galassia jihadista, in tutta la regione del Sahel; in Somalia e Mozambico, e nella regione dei Grandi Laghi? Una opportunità di guadagno o una convinzione ideologica? Le Afriche presentano situazioni molto divergenti da regione a regione: è possibile però scandagliare meglio i motivi dettati dalla povertà, dalla corruzione e dall’instabilità politica.

Lo fa un recente documento del Parlamento europeo, Jihadist networks in sub-Saharan Africa Origins, patterns and responses, ponendo l’accento sull’avanzata dei gruppi affiliati a Da'esh in tutta la zona del Sahel dal Mali al Burkina Faso al Niger. Con incursioni in Nigeria, Ciad e Cameron: il “trend è preoccupante”, si legge. In gran parte questi gruppi sono conseguenza dell’instabilità dei regimi, della porosità dei confini, della corruzione interna e della povertà generalizzata di mezzi ed alternative economiche (a favore dell’adescamento di manovalanza a basso costo). Dunque, più che una convinzione ideologica, ci sarebbero cause legate al contesto e al vuoto di democrazia.

«Le cause profonde degli attacchi terroristici– spiega il ricercatore Anneli Botha al giornale online The Conversation – hanno un’origine interna, diversa per ciascuno Stato. Non c’è un singolo profilo o una sola ragione. Si tratta di una combinazione di cause: politiche, sociali ed economiche».

Analisi simili ci giungono dai missionari in loco che inoltre invitano a distinguere nettamente tra «regioni permeabili alla penetrazione delle milizie islamiste e regioni del tutto estranee alla logica del jihad in Africa».

Inoltre parlano di un terrorismo e di una violenza che non hanno a che fare con la religione in sé, quanto piuttosto con l’uso distorto e strumentale dell’Islam per finalità destabilizzanti e conquista del potere.

«Farei molta attenzione: un conto è il Sahel, e un conto è l’Africa Subsahariana, dove non parlerei di vero e proprio jihad né di Islam radicale – ci spiega al telefono dallo Zambia il comboniano padre Antonio Guarino – Una parte dell’Africa è refrattaria anche solo alla semplice diffusione dell’Islam: dall’Uganda in giù, in particolare in Zambia, Kenya e Botswana la religione islamica è in qualche modo africanizzata; la religione tradizionale ha ancora un suo ruolo molto forte. Il tentativo di reclutare i ragazzi per una sorta di Jihad in questi Paesi non c’è».

Diversa è la situazione nel Sahel, tra Mali, Niger e Benin, dove i gruppi armati di matrice jihadista sono sempre più pericolosi per gli abitanti stessi, e stanno penetrando a fondo nel tessuto sociale.

«I tre ragazzi sono spariti nel nulla. Studenti della scuola media superiore, erano andati a passare qualche giorno di vacanza in famiglia nel villaggio natale di Ngoula. Il ritorno a scuola gli è stato fatale. Uno dei quattro amici è riuscito a fuggire e gli altri tre, da allora, sono nelle mani di sconosciuti, presunti jihadisti che controllano la regione», ci racconta padre Mauro Armanino, missionario SMA in Niger. «Erano inesistenti prima e sono invisibili ora, perché figli di contadini, nascosti dal grande pubblico e cittadini di seconda categoria perché poveri» prosegue Armanino.

La zona è la stessa nella quale, nel mese di settembre del 2018, era stato rapito Padre Pierluigi Maccalli, poi liberato nel 2020.


«Anche se non era un lavoro degno, io avevo bisogno di denaro per me e per la mia famiglia», dice un giovane affiliato alla brigata Katiba Khalid Ibn Walid in Mali.


La testimonianza è raccolta dall’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza, centro di ricerca africano con diverse sedi, tra cui una a Pretoria. Il documento si intitola “Mali’s young ‘jihadists”, giovani jihadisti in Mali. E il sottotitolo è: “stimolati dalla fede o dalle circostanze?”.


L’analisi mira a dimostrare che in moltissimi casi dietro la manovalanza del cosiddetto jihad ci sono una serie di vantaggi allettanti per i giovani combattenti. Ben altro rispetto ad una cieca convinzione ideologica.

«Giovani più disoccupazione è uguale a radicalizzazione? – si legge nel report - I dati raccolti confermano l’esistenza di un collegamento ampiamente accertato tra giovani disoccupati e coinvolgimento giovanile nei gruppi jihadisti. Dimostrano inoltre che la situazione è molto più complessa di quanto appare. La disoccupazione è un fattore tra i tanti che includono povertà, difficoltà nel soddisfare bisogni primari e mancanza di prospettive».

«Li ho raggiunti per supportare la mia famiglia. Non avevo uno stipendio, ma loro mi hanno aiutato quando ne avevo bisogno», dice un altro ragazzino intervistato della brigata Ansar Dine a Timbuktu.


Ci sono altre due hotspot legati al terrorismo jihadista in Africa, ne parla anche The Conversation: il primo è in Somalia, dove si «sperimenta una instabilità continua dal 1991» ad opera di Al-Shabab. I terroristi vengono reclutati tra le comunità marginalizzate del Kenya e anche tramite Uganda, Tanzania e Djibouti.
Il secondo hotspot è localizzato nell’Est della Repubblica democratica del Congo, ossia nel Nord Kivu. Qui esiste una vera e propria “zona franca” di frontiera, controllata pochissimo se non per nulla dall’esercito governativo, e dove gruppi armati (almeno 114 milizie) infiltrati da Uganda e Ruanda si spartiscono il territorio ricchissimo di risorse naturali.

Proprio in questa zona è avvenuto l’agguato all’ambasciatore italiano Luca Attanasio e la sua scorta. Con l’uccisione anche dell’autista Mustapha Milango e del carabiniere Vittorio Iacovacci.

Molto basata sul reclutamento dei ragazzini è poi la guerra tra fazioni rivali in Centrafrica, dove peraltro il reintegro nella società civile degli ex bambini soldato non ha funzionato. Suor Elvira Tutolo, storica missionaria a Berberati e Bangui, ci racconta che tra i ribelli, con meraviglia e tristezza, ha riconosciuto un paio di ragazzi che erano stati accolti dalle suore nella missione di Berberati qualche anno prima e sottratti ai gruppi armati.

«Dalle foto ho riconosciuto Romualdo, che era un nostro ragazzo! Lo avevamo recuperato e invece è tornato a combattere – ci racconta suor Elvira al telefono da Bangui – Ma perchè accade questo? Perchè il programma Onu di disarmo e reintegrazione non ha funzionato. Toglieva le armi ai giovani ma non offriva loro delle valide alternative lavorative; tanto che appena hanno potuto si sono rimessi a far la guerra».

In Uganda si può parlare di violenza e di «attentati che non hanno a che fare con la religione», quanto piuttosto con la destabilizzazione dell’area. Nonché con la facilità di assoldare giovani pronti a sparare. In Uganda è impossibile «sopravvivere, avere un lavoro, guadagnare – spiega una nostra fonte missionaria in loco – pertanto io credo che sia sempre più frequente per questi gruppi che destabilizzano l’area, trovare manovalanza disposta ad uccidere».

Ancora una volta povertà, mancanza di istruzione e valide alternative occupazionali generano precarietà e insoddisfazione. Il tentativo di manipolare la religione o far penetrare il jihadismo affonda lì le sue radici. La guerra di religione è una narrazione del tutto occidentale che qui in Africa regge sempre di meno.

L’Uganda è un paese a maggioranza cristiana (oltre l’80% della popolazione pratica la religione cristiana), l’Islam rappresenta meno del 14% della popolazione: «viviamo in un Paese libero dal punto di vista confessionale -spiega la fonte – dove non ci sono mai stati problemi di conflittualità con i musulmani». E ancora: «L’Uganda è aperta a tutti, c’è una mutua fraternità: ognuno rispetta gli altri e c’è una completa libertà di professare la propria fede».

La violenza qui non sembra correlata, dunque, né ad una deliberata persecuzione nei confronti dei cristiani, né ad una presenza strutturata di gruppi islamisti con forte identità religiosa, quanto piuttosto ad un disegno più vasto che vede il terrorismo penetrare sempre di più in territorio orientale per conquistare ricchezze interne, per occupare i vuoti lasciati dalla politica, per favorire la criminalità.

Una recente duplice esplosione a Kampala è avvenuta in luoghi chiave della vita politica e amministrativa del Paese: la prima deflagrazione accanto ad una stazione di polizia, l’altra vicino al palazzo del Parlamento. La polizia lo ha descritto come «un attacco coordinato, da parte di gruppi ‘radicalizzati’».

L’Uganda in qualche modo si colloca in quest’area di frontiera ed è fortemente condizionata dal terrorismo.

Articolo di aggiornamento pubblicato sul numero di gennaio 2022 di Popoli e Missioni:

http://www.popoliemissione.it/la-poverta-che-ce-dietro-il-jihad-in-africa/

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