Repressione militare in Sudan, Amnesty chiede liberazione di due adolescenti

Giornalista professionista dal 2005, si occupa di diritti umani, economia predatoria in Africa e lotta alla povertà. Ha lavorato nelle agenzie di stampa, da Agi, a Reuters ad Adnkronos.
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03 marzo 2022

L’appello di Amnesty International è arrivato in queste ore forte e chiaro: “scarcerazione immediata” in Sudan di Mohamed Adam e Mohamed al-Fateh, 17 e 18 anni, torturati dalle forze dell’ordine sudanesi, e in carcere dal 15 gennaio scorso. I due ragazzi erano stati arrestati nel corso di una delle molte manifestazioni di protesta contro il golpe militare. Quel giorno però era stato ammazzato anche un poliziotto, per cui la repressione dell’esercito contro i civili si era rivelata particolarmente violenta.

«Siamo a ragione preoccupati per il fatto che i due giovani siano stati catturati senza alcuna accusa, in violazione di tutti i loro diritti e sottoposti a torture durante la detenzione», scrive Amnesty.

Il popolo sudanese è molto tenace e continua a contestare le modalità e il risultato di un golpe che ha portato alle dimissioni manipolate del premier Abdalla Hamdok. Oltre cento persone hanno perso la vita nel bagno di sangue della repressione militare che dura dal giorno del Colpo di Stato, il 25 ottobre 2021. Proprio la violenza dell’esercito e l’impossibilità di fermare i massacri, hanno spinto lo scorso 2 gennaio il premier depotenziato Abdalla Hamdok a gettare la spugna. Dopo mesi di negoziati falliti e dopo un tentativo mai andato in porto di formare un nuovo governo assieme ai militari (sul principio del power sharing), Hamdok ha rassegnato le dimissioni. Segno che non ci sono margini nel Paese per procedere ulteriormente lungo la strada della “condivisione del potere” con i militari.

Per settimane la gente ha protestato e non si è lasciata intimorire dalle minacce. «Tanti, tantissimi oggi in marcia verso il palazzo presidenziale, a pochi metri da casa. Quando sembrava che avesse prevalso la real politik degli accordi di palazzo, la gente invece si è fatta sentire. Lacrimogeni tanti, tanti. Qualcuno è caduto anche nel cortile della nostra chiesa, ma noi stiamo tutti benone», ci raccontava nelle settimane scorse una nostra fonte della Chiesa cattolica a Khartoum.

Nel discorso pubblico tenuto poco prima di dimettersi, Hamdok aveva detto: «Ho cercato in ogni modo di evitare che il nostro Paese precipitasse nel baratro. Ora ci avviciniamo ad un pericoloso punto di svolta che potrebbe minacciare la sua sopravvivenza se non urgentemente rettificato». Il riferimento è chiaramente al confronto sempre più serrato e ìmpari (la barbarie dei militari è un dato di fatto e tra le vittime molte sono donne) tra esercito e civili.

Le dimissioni di Hamdok

«Nella notte tra il due e il tre gennaio il primo ministro si è dimesso. Si è trattato di un passo inevitabile, ma verso dove? Siamo al bivio fra dittatura militare e anarchia totale?». Si chiede una nostra fonte legata alla Chiesa cattolica a Khartoum. Dubbi ed incertezze sul futuro vacillante del Sudan assalgono tutti i cittadini, non solo quelli della capitale, che nonostante ciò però continuano a lottare per non essere sopraffatti.

«Purtroppo – dice una fonte in loco – la società civile che ha adottato lo slogan “niente negoziazioni” sembra non avere proposte da mettere sul tavolo. Anche perchè la piattaforma è molto divisa al suo interno ed annuncia per gennaio altre sei date di protesta». In realtà il niet circa una mediazione con i militari non arriva solo dalla gente comune: lo stesso Hamdok, pure armato di buona volontà (nonostante sia rimasto per settimane agli arresti nella residenza del generale Bhuran) non è riuscito a negoziare con i golpisti. È probabile che la contropartita politica fosse troppo svantaggiosa per lui e per i ministri della compagine civile, e che comunque la brutalità dell’esercito lo abbia frenato dal cercare un compromesso ad ogni costo.

E’ circolato anche il nome di Ibrahim Elbadawi come possibile nuovo primo ministro: ma gli analisti locali ritengono che sia un politico «troppo onesto» per accettare di far parte di un governo controllato de facto dai militari.

Forte della scelta audace di Hamdok la piattaforma pro-democrazia del Sudan – formata anche da studenti e da professionisti – annuncia una serie di manifestazioni praticamente a giorni alterni. Chiede rassicurazioni per la propria libertà e incolumità fisica e una transizione ragionevole verso libere elezioni democratiche. La decisione del premier, annunciata tramite i canali ufficiali televisivi, è giunta ben sei settimane dopo il suo ritorno in carica.

Il popolo non accetta compromessi con l’esercito

«La società civile formata soprattutto da giovani e da moltissime donne, non accetterà mai un compromesso con l’esercito», dice senza ombra di dubbio Antonella Napoli, che nel 2019 era a Khartoum per filmare la rivoluzione contro Bashir e venne fermata dalla polizia.

«Anche stavolta la popolazione – spiega – è molto determinata a non mollare, anche perché troppo recente è il ricordo delle atrocità di Omar Al-Bashir. La gente proseguirà indubbiamente la sua protesta finchè non otterrà ciò che chiede».

Cosa vogliono sono loro stessi a dirlo, anche perché i sudanesi sono molto consapevoli dei propri diritti ed hanno già combattuto contro un despota accusato di crimini contro l’umanità (Al-Bashir, deposto nel 2019 è ricercato dalla Corte Penale Internazionale). I manifestanti vogliono che i militari non abbiano alcun ruolo in un governo di transizione verso libere elezioni. La coalizione delle Forze per la Libertà e il Cambiamento chiede alla comunità internazionale e alle organizzazioni per i diritti umani di condannare con forza il colpo di Stato militare. Per la gente del Sudan, dopo il golpe del 25 ottobre dello scorso anno, l’esercito è fuori legge poiché ha usato la forza per delegittimare un governo e privare della libertà personale il premier e i suoi ministri. Troppo fresco è il ricordo della lunga dittatura sanguinaria di Omar Al-Bashir e forte è il timore che dietro questi generali si nasconda l’entourage del vecchio presidente. «Questo è un popolo che ha molto sofferto e molto combattuto – spiega ancora Antonella Napoli – Ha vissuto 30 anni di dittatura spietata ed è proprio quell’esperienza a spingere oggi le persone a non cedere ad un compromesso con i generali».

Lo spettro di al-Bashir spaventa il popolo

Nel suo libro “Il vestito azzurro” la giornalista racconta i giorni concitati del post rivoluzione del 2019: «Dopo che i militari avevano annunciato la cacciata di al-Bashir le donne sudanesi e gli altri dimostranti erano rimasti in piazza e all’annuncio che a guidare il Consiglio militare sarebbe stato il ministro della difesa sudanese Ahmed Awad Ibn Auf, la gioia si era trasformata in rabbia».

Così la scelta era ricaduta sul generale Abdel Fattah al-Burhan che «sembrava avere un curriculum più ‘pulito’ rispetto al predecessore e agli altri ufficiali delle forze armate», scrive ancora Napoli. Ma il massacro del 3 giugno 2019 ha dimostrato quanto fosse illusoria quella fiducia riposta in Burhan: in quei giorni furono uccise non meno di 120 persone che si aggiungevano ai 400 morti della rivoluzione.

«Le atrocità del 3 giugno avevano avuto un’unica conseguenza positiva – dice ancora Napoli -: il passo indietro della giunta militare, sotto la pressione internazionale, e la nascita del governo di unità nazionale presieduto dall’economista Abdalla Hamdok».

Al punto in cui si è, anche l’esperimento del governo di unità nazionale è fallito e la buona volontà di Hamdok ha ceduto il passo alla prepotenza dei generali.

Quale sia il destino che attende un intero popolo non è facile prevedere ma di certo servirà tutto il sostegno della comunità internazionale, poiché ciò che accade nelle strade del Sudan non è solo un affare interno al Paese. Al contrario, ogni rivoluzione ed ogni resistenza di popolo ci interroga e ci coinvolge tutti e ci obbliga a prendere una posizione. Non averne una equivale a sostenere indirettamente i carnefici.

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