Africa: meno armi dalla Russia, più combustibili fossili destinati all’Europa

Giornalista professionista dal 2005, si occupa di diritti umani, economia predatoria in Africa e lotta alla povertà. Ha lavorato nelle agenzie di stampa, da Agi, a Reuters ad Adnkronos.
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13 settembre 2022

La Russia rimane un partner economico solido per diversi Paesi africani, sebbene sia fortemente (e fortunatamente) in calo l’export di armi da Mosca all’Africa. L’Europa, invece, conferma e rafforza la sua presenza sul versante dell’estrazione dei combustibili fossili in diverse regioni africane.


È oramai noto, come ricorda bene il Financial Times, che molti governi africani «hanno chiuso un occhio sulla campagna di Vladimir Putin per ridisegnare la mappa dell’Europa con il sangue».

Se ventotto Paesi hanno votato all’Onu una risoluzione di condanna dell’invasione ucraina, «17 su 54 si sono invece astenuti e otto erano troppo impegnati per votare».

L’astensione di molti africani – tra cui l’Angola, la Repubblica Centrafricana, il Mali, il Mozambico, il Sudafrica, il Sudan e lo Zimbabwe – è «anche segno della strisciante influenza russa che si mescola a una mal riposta nostalgia per l’Unione Sovietica».

Ma a fronte della “grande amicizia” che per diverse ragioni lega l’Africa alla Russia di Putin, i disagi e le conseguenze nefaste del protrarsi della guerra in Ucraina sul continente nero, sono una realtà evidente. E sarà questo il tema dei prossimi mesi per l’Africa. Anzitutto, come scrive Foreign Policy concentrandosi sull’aspetto degli armamenti la Russia finora è stata il più grande rifornitore di armi di ogni calibro e natura ai Paesi africani in guerra o guerriglia, a partire da Algeria, Egitto, Sudan e Angola. Non sarà più possibile almeno nel breve periodo continuare ad esserlo, poiché tutta (o quasi) la produzione russa serve a Mosca per la guerra in corso.
Qui l’articolo che ne parla, dal titolo: “l’Ucraina ha messo a terra il business delle armi della Russia”.

Secondo il Sipri, Stockholm International Peace Reaserch Institute, Mosca fornisce (o per meglio dire forniva) a questi Paesi circa la metà dell’export mondiale di armi; ma con il protrarsi del conflitto Putin sarà costretto a limitarne di molto la vendita all’Africa. «La Russia ha una lunga storia di rifornimenti di elicotteri, come gli Mi-17 e gli Mi-35 ai clienti africani adoperati per le operazioni di contro-insurrezione», scrive Foreign Policy. I governi africani sono allarmati per un possibile “abbandono” del campo dell’export.

Ma a parte gli armamenti c’è naturalmente una grandissima preoccupazione per le conseguenze deleterie che la guerra ucraina sta avendo sull’Africa dal punto di vista dei rifornimenti alimentari, dei combustibili fossili e dei fertilizzanti e di tutti i macchinari agricoli che arrivano dall’Europa dell’Est e dalla Russia.

Lo ricorda il Jordan Times in un pezzo dal titolo: “What Ukraine war means for Africa”.

I legami del continente nero con l’ex blocco sovietico sono molto più stretti di quanto pensasse l’Europa, e si sono ulteriormente rafforzati in questi anni di allontanamento politico dei Paesi europei dall’Africa. Un pezzo di The Africa Report lo spiega bene.

Eppure adesso, come scrive il Guardian, il conflitto russo-ucraino sta generando un riavvicinamento dell’Africa al Vecchio Continente. L’Europa messa alle strette sul gas russo e su tutto il capitolo energetico, volge ancora di più lo sguardo languido all’Africa povera ma ricca di combustibili fossili (Mozambico, Egitto, Angola, Nigeria, Tanzania e Congo sono le galline dalle uova d’oro), e serra le fila.

Il gas naturale africano (in Senegal tra 2014 e 2017 sono stati scoperti enormi giacimenti di gas), e il petrolio che continua ad essere estratto nonostante il nuovo corso della green economy (ne è un esempio il progetto Eacop della TotalEnergies in Tanzania che vede il petrolio ugandese estratto dalla Francia, venire esportato in Cina), sono un’ancora di salvezza per il Vecchio Continente.

E rappresentano anche l’unico spiraglio di ripresa per i governi dell’Africa Subsahariana messa sotto pressione dai debiti e dagli squilibri interni. Eppure i combustibili fossili estratti dal sottosuolo africano non arricchiscono l’Africa, né servono ad incrementare il consumo interno.

Prendiamo il Kenya ad esempio, non del tutto sprovvisto di pozzi di petrolio: la britannica Tullow Oil, assieme a TotalEnergies e Africa Oil, ha ultimato un investimento da 3,4 miliardi di dollari per il Lokichar oil project nel nord del Kenya, attivo a partire dal 2025. Peccato che gran parte di questa produzione è destinata ad uscire fuori dal Paese.

Come ci spiega un francescano a Nairobi, Fra Ettore Marangi: «per l’Europa il problema quest’inverno sarà dato dall’elevato costo energetico del riscaldamento per via delle strettoie imposte al gas russo; ma qui da noi in Kenya siamo già arrivati ad un bivio tra mangiare e non mangiare: in Africa l’energia vuol dire quasi tutto ma i combustibili estratti non sono destinati all’Africa».

A rimetterci è senz’altro l’ambiente e con esso la lotta ai cambiamenti climatici che rischiano grosso con il revival dei combustibili fossili in Africa.

Ma a farne le spese sono come sempre anche le popolazioni africane povere e senza chance, che pagano il conto di un business in gas e petrolio molto lontano dagli standard di sviluppo umano richiesti dall’Agenda Onu per il 2030.

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