L’Eritrea, il regime e la libertà che non c’è (compresa quella religiosa)

Giornalista professionista dal 2005, si occupa di diritti umani, economia predatoria in Africa e lotta alla povertà. Ha lavorato nelle agenzie di stampa, da Agi, a Reuters ad Adnkronos.
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01 dicembre 2022

Nell’Eritrea di Isaias Afewerki «non c’è un’opposizione interna poichè tutti coloro che si sono opposti al regime alla fine son dovuti fuggire all’estero o sono in carcere».

Per quanto riguarda la Chiesa cattolica «non può e non deve essere percepita come opposizione al regime, poiché fa solo il suo dovere evangelico: ossia praticare giustizia e carità». La Chiesa (sia i vescovi che i semplici religiosi e le religiose) non può tacere il sopruso, e dunque accade che non tacendo, paghi un prezzo poiché la sua missione in qualche modo «disturba il regime».

Ad affermarlo è don Mussie Zerai, sacerdote eritreo, fondatore della ong Habeisha, vissuto per oltre 30 anni in Italia ed oggi in Canada.

«Ci sono situazioni di ingiustizia gravissime in Eritrea e la Chiesa le affronta – dice con noi al telefono – a maggior ragione quando viene toccata la libertà religiosa. C’è una grossa differenza tra libertà di culto e libertà religiosa».

«Asmara consente (almeno sulla carta) la libertà di culto, ossia la celebrazione delle liturgie e la recitazione delle preghiere, ma non consente quella religiosa perchèsarebbe ben più ampia, e toccherebbe tutta l’opera di carità».

Afewerki ha iniziato già da alcuni anni «a confiscare scuole e ospedali cattolici, a limitare l’azione esterna della Chiesa e allora la Chiesa ha dovuto dirlo, denunciare».

A quel punto la reazione è stata spietata: al momento la violazione più grave è relativa all’arresto del vescovo Fikremariam Hagos Tsalim, 52 anni, prelato di Segheneity, regione considerata la culla della cristianità eritrea.

Tsalim è stato arrestato dal regime senza un valido motivo lo scorso 15 ottobre, e ancora rimane nel carcere di Adi Abeito, alla periferia di Asmara.

«Io ritengo – dice ancora don Zerai – che serva una pressione internazionale forte, se anche la diplomazia potesse usare i suoi strumenti forse si riuscirebbe ad ottenere la scarcerazione dei molti sacerdoti e di tutti gli esponenti della società civile in carcere».

«Spesso si è pensato che fosse preferibile tacere, per non urtare ulteriormente la sensibilità del regime, ma arrivati a questo punto io ritengo che tacere non sia di alcuna utilità», afferma il sacerdote.

Poi don Mussie ci parla delle responsabilità dell’Eritrea nella guerra del Tigray:

«quello che è avvenuto è orribile – dice – e anche l’Eritrea senza dubbio ha avuto un ruolo nell’invasione del Tigray, sebbene lo neghi. Hanno distrutto tutto: case e ospedali sono ridotti all’anno zero».

È evidente che «Eritrea ed Etiopia si sono alleate in chiave bellica e noi avevamo pensato erroneamente che avessero invece stipulato un accordo di pace.

Il mondo, distratto, «si è accontentato di ciò che era solo in superficie: ossia la pace stipulata tra Afewerki e AbiyAhmed, ma i due leader in realtà preparavano l’aggressione del Tigray».

Questa è la versione di Mussie Zerai e di molti altri analisti che vedono un’alleanza tra i due Paesi finalizzata ad attaccare la regione separatista del Nord dell’Etiopia.

In questo momento nel Tigray si muore ancora: «si parla di un milione e 200mila persone ridotte alla fame e ancora senza cibo, l’accordo di pace tra Etiopia e Tigray è stato firmato sulla carta, ma se non viene concretamente attualizzato è come se non esistesse».

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