Strage dei siriani. Perché la prescrizione per gli imputati pesa per la Fortezza Europa più di una condanna

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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18 dicembre 2022

Sono morte 268 persone, inghiottite dal Mediterraneo nella lunga agonia del naufragio del barcone con cui stavano fuggendo dalla Libia verso l’Italia. Tra loro, almeno 60 bambini. E’ la “strage dei siriani”, avvenuta l’undici ottobre 2013 circa 60 miglia a sud est di Lampedusa. Appena otto giorni prima, il 3 ottobre, sempre di fronte a Lampedusa, ma a soli 800 metri dalla riva, c’era stata la “strage degli eritrei”: 368 vittime. E proprio l’eco enorme di questa prima tragedia ha finito per oscurare un po’ quella successiva dei siriani, altrettanto grave. Anzi, più grave, per come si sono svolti i fatti. Perché ci sarebbe stato tutto il tempo per organizzare i soccorsi ed evitarla almeno in parte questa seconda tragedia. Il processo che ne è nato, durato quasi dieci anni e concluso a Roma in questi giorni, lo ha dimostrato: se si fosse intervenuti tempestivamente, quelle 268 vite si sarebbero potute salvare. Di fatto, invece, sono state lasciate annegare, ignorando le loro disperate richieste di aiuto. Eppure non ci sono state condanne.

Erano due gli imputati: il capitano di vascello Leopoldo Manna, capo della centrale operativa del comando generale delle capitanerie di porto, e Luca Licciardi, al vertice della sezione operazioni del comando squadra navale della Marina. Il Tribunale – presidente Anna Maria Pazienza, giudici Maria Concetta Giannitti e Chiara Bocola – li ha riconosciuti entrambi colpevoli per l’omissione dolosa dei soccorsi. Omissione, afferma la motivazione della sentenza, che ha poi contribuito in maniera decisiva a provocare la strage. I giudici hanno cioè stabilito, in sostanza, che i due alti ufficiali hanno rifiutato i soccorsi, pur essendo Lampedusa molto più vicina di Malta alla zona del naufragio e pur potendo disporre, già in mare, a poche miglia di distanza, di un pattugliatore della Marina, la nave Libra, che avrebbe potuto raggiungere il barcone in meno di un’ora. Solo che da quell’undici ottobre sono passati troppi anni: tanti da far scattare i principi di garanzia della prescrizione.

Nessuna condanna e, dunque, nessun colpevole? Certamente no. A leggerne le motivazioni, emerge che la sentenza chiama in causa in modo pesante, inesorabile, l’indifferenza. Quell’indifferenza, difesa sino allo stremo dalle autorità di governo, che ha portato ad assistere pressoché inerti a questa tragedia: temporeggiando per ore, nascondendosi dietro a mille pretesti, aprendo un rimpallo di competenze con Malta (responsabile della zona Sar ma lontana più di 100 miglia contro la metà circa da Lampedusa), nascondendo addirittura a La Valletta la presenza in zona della Libra. Tanto che, quando si è deciso finalmente di intervenire, era ormai troppo tardi.

La cronologia dei fatti è stata ricostruita ora per ora da Fabrizio Gatti, dell’Espresso. Il barcone, partito la sera del 10 ottobre dalla Libia con a bordo circa 450 profughi, tutti siriani, era stato inseguito e fatto segno di raffiche di mitraglia da una motovedetta. Nonostante i colpi ricevuti, all’altezza della linea di galleggiamento, aveva potuto continuare la navigazione, pur cominciando a imbarcare acqua. I problemi iniziano la mattina dopo: con l’acqua che continua a entrare, il natante minaccia di cedere o rovesciarsi. Gli avvenimenti successivi sono di per sé un atto d’accusa.

– Ore 11,00. Un medico lancia da bordo il primo Sos. Questa richiesta di aiuto non risulta nella ricostruzione fatta da comando generale delle Capitanerie di Porto, ma è confermata da vari superstiti..

– Ore 12,26. La centrale di coordinamento della Guardia Costiera a Roma riceve e registra il secondo Sos, lanciato sempre dal medico siriano. La conversazione è disturbata: la linea cade dopo cinque minuti.

– Ore 12,39. Alla centrale di Roma arriva ancora una chiamata, la terza dallo stesso cellulare. E’ una telefonata disperata, che si protrae fino alle 12,56: ora il collegamento è buono e il medico descrive nei dettagli il rischio estremo al quale sono esposti i profughi, precisando che ci sono a bordo anche bambini bisognosi di cure e che lo scafo sta imbarcando acqua.

– Ore 13,00. La Guardia costiera italiana passa l’intervento a La Valletta. Il barcone che sta affondando è in un’area di competenza maltese ma a 118 miglia da Malta e a sole 61,4 (113 chilometri) da Lampedusa. A bordo lo sanno: lo hanno rilevato da uno strumento Gps e proprio per questo hanno chiesto soccorso all’Italia.

– Ore 13,05. La centrale operativa di Malta assume la direzione dei soccorsi. Le motovedette di Lampedusa potrebbero raggiungere il luogo del naufragio in poco più di due ore ma non vengono mobilitate.

– Ore 13,34. Il comando della Guardia costiera italiana avvisa dell’emergenza le navi private che incrociano nella zona, invitandole a prestare assistenza.

– Ore 15 circa. Malta avverte il medico siriano autore degli Sos che ci vorranno ancora 45 minuti perché i primi soccorsi possano arrivare.

– Ore 16 circa. Nuova comunicazione di Malta al medico: servono ancora dai 60 ai 70 minuti alle navi di soccorso per giungere sul posto.

– Ore 16,22. Malta comunica a Roma che un proprio aereo sta sorvolando la nave.

– Ore 17,07. La nave dei profughi si capovolge. Malta lo comunica a Roma, precisando che ci sono molti naufraghi in acqua e chiedendo l’intervento di mezzi di soccorso italiani.

– Ore 17,14. Viene dirottata per i soccorsi la nave Libra, della Marina Militare, che incrociava da ore ad una decina di miglia di distanza con compiti di protezione dei nostri pescherecci ma che non era stata mobilitata nonostante potesse arrivare sul luogo della tragedia in meno di un’ora. Subito alla Libra si aggiunge la nave Espero, che è a 60 miglia. Gli elicotteri delle due unità individuano i naufraghi in breve tempo e lanciano scialuppe gonfiabili.

– Ore 17,49. Da Lampedusa salpano la motovedetta Cp 302 della Capitaneria e due pattugliatori della Guardia Costiera.

– Ore 17,51. La nave militare maltese P61 raggiunge i naufraghi.

– Ore 18 circa. La nave Libra raggiunge il punto del naufragio. Sul posto, impegnati nei soccorsi, trova anche due pescherecci.

– Ore 18,08. Da Lampedusa parte un’altra motovedetta della Capitaneria, la Cp 301.

– Ore 20,18. La motovedetta Cp 302 arriva sul posto, seguita alle 20,31 dalla Cp 301. Ci hanno messo meno di due ore e mezza. Se fossero state fatte partire dopo la prima richiesta di soccorso sarebbero arrivate verso le 15,30: molto prima che la tragedia si concludesse con 268 vittime. Ancora più rapido e tempestivo sarebbe potuto essere l’intervento della Libra, che ci ha messo meno di un’ora ad arrivare sul posto dal momento in cui è stata mobilitata.

Ecco, è di fronte a questa sequenza di fatti che la Guardia Costiera e la Marina italiana sono rimaste indifferenti. Quella stessa indifferenza che nel tempo ha continuato e continua tuttora a manifestarsi nel Mediterraneo in tantissimi episodi simili. Per fortuna, con meno vittime tutte insieme, ma con l’identico, doloroso carico di sofferenze e di diritti calpestati. Un’indifferenza, un “voltarsi dall’altra parte”, che è lecito ritenere derivino in gran parte, più o meno direttamente o esplicitamente, dalla politica di chiusura e respingimento ad ogni costo adottata in maniera sempre più netta, negli ultimi vent’anni, dall’Italia e dall’Europa nei confronti dei migranti. Anche nelle situazioni più estreme. Come la strage di Garabulli: oltre 130 morti nel naufragio di un gommone abbandonato alla deriva senza soccorsi, nel mare in burrasca, tra il 20 e il 22 aprile del 2021, nonostante le ripetute segnalazioni inviate sia all’Italia che a Malta dalla centrale della Ong Alarm Phone. O come, un anno prima, tra l’11 e il 15 aprile, la strage di Pasquetta, con 12 vittime (7 dispersi in mare e 5 morti di freddo e di sfinimento) su un canotto rimasto in balia del mare per cinque giorni, fino a quando sia i 51 superstiti che le cinque salme sono state prese a bordo da un misterioso peschereccio inviato da Malta a meno di 30 miglia da Lampedusa e trasportati a Tripoli, con il risultato non solo di 12 giovani vite spezzate ma del respingimento indiscriminato in mare di decine di richiedenti asilo, in aperto contrasto con il diritto internazionale, la “legge del mare” e convenzioni fondamentali come quella di Ginevra del 1951 o quella europea sui diritti umani. Due casi emblematici di quanto accade nel Mediterraneo che vale la pena citare, tra i tanti, perché entrambi sono stati portati all’attenzione della magistratura, sia italiana che maltese, da varie associazioni umanitarie ed Ong. Tanto più che sembra ormai una prassi abituale quella di abbandonare in mare barche cariche di migranti – in grave pericolo per il solo fatto che sono sovraccariche e pressoché ingovernabili – in attesa che arrivi dalla Libia una nave, quasi sempre una delle motovedette cedute dall’Italia, che svolga il “lavoro sporco” del respingimento. Magari seguendo, per individuare i natanti, le coordinate indicate da Frontex, come ha denunciato proprio in questi giorni una minuziosa inchiesta di Human Rights Watch, accusando senza mezzi termini l’agenzia europea di complicità con gli abusi commessi in Libia sui migranti, perché la sua sorveglianza aerea “non è concepita per salvare coloro che si trovano in una situazione di pericolo in mare ma per impedire loro di raggiungere il territorio dell’Ue”.

Ecco, allora, perché – pur non essendoci imputati condannati ma “solo” prescritti – la sentenza pronunciata giorni fa dal Tribunale di Roma è importante. Le motivazioni illustrate dai giudici, definendo nei dettagli le responsabilità della strage dell’undici ottobre 2013 al largo di Lampedusa, vanno molto al di là del caso in sé: stanno a indicare che in episodi simili nessuno può voltarsi dall’altra parte e restare indifferente. E’ un monito che vale per chi – come gli ufficiali o il personale della Marina e delle Capitanerie di Porto – opera direttamente “sul campo”. Ma vale anche per le barriere sempre più alte erette dalla politica italiana e Ue esternalizzando le frontiere della Fortezza Europa e conferendo ad organismi come la Guardia Costiera o la polizia libiche (ma non solo) l’incarico di vigilare perché ai migranti sia impedito di varcarle. Ad ogni costo e senza chiedersi quale sia la sorte di chi resta bloccato “al di là del muro”.

E’, in altri termini, una sentenza che vale per quello che è accaduto ma anche e soprattutto per quello che accade ancora oggi e accadrà in futuro. E’ con questo spirito che i superstiti e i familiari delle vittime della strage si sono rivolti alla giustizia italiana ormai dieci anni fa. I nove avvocati italiani che li hanno seguiti nel lunghissimo procedimento iniziato nel 2013, quando è stata aperta l’inchiesta, hanno tenuto in particolare a sottolineare questo aspetto: “I nostri assistiti che in mare, nelle cinque ore in cui hanno atteso invano i soccorsi, hanno visto annegare i loro congiunti, in molti casi i loro bimbi, ed essi stessi hanno rischiato la vita, hanno sempre chiesto di fare in modo che quanto accaduto non si ripetesse. Per questo hanno affrontato anche l’agonia di questo lungo processo. Oggi possiamo sperare che questa decisione ricordi a tutti i doveri convenzionali e legislativi in capo a chi fa e gestisce i soccorsi in mare. La decisione del Tribunale di Roma non riguarda solo fatti passati ma riguarda anche quelli odierni e futuri: le vite umane in mare vanno sempre salvate e nessun ordine o convenienza può sopprimere questo inderogabile dovere”.

“Le vite umane in mare vanno sempre salvate”. E’ questo il punto focale. “Vale anche per la politica della Fortezza Europa – afferma Arturo Salerni, uno degli avvocati delle vittime della strage dell’undici ottobre – Quella politica che in vent’anni ha trasformato il Mediterraneo in un cimitero e che, per di più, si rende complice degli orrori che si verificano nell’inferno della Libia. Per ‘giustificare’ queste scelte l’Italia e la Ue si sono inventate un’invasione che non c’è e pericoli inesistenti. Parlano di necessità e dovere di difendere i confini europei. Addirittura del rischio di un attentato alla nostra identità nazionale ed europea. Ma, altroché migranti… E’ proprio questa politica ad attentare alla nostra identità. Ai valori della nostra democrazia. Quei valori di libertà, uguaglianza, solidarietà, giustizia che sono il fondamento e la guida del nostro stare insieme. Senza, l’Italia non sarebbe più l’Italia e l’Europa non sarebbe più l’Europa”.

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