Tunisia: “Saied è un despota ma l'Europa se ne accorge tardi e male”. Intervista alla sociologa Chiara Sebastiani

Giornalista professionista dal 2005, si occupa di diritti umani, economia predatoria in Africa e lotta alla povertà. Ha lavorato nelle agenzie di stampa, da Agi, a Reuters ad Adnkronos.
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25 marzo 2023

«Kais Saied è un presidente autoritario e anti-democratico, originariamente vicino ad ambienti di sinistra e senza dubbio capace di sedurre i giovani». Giunto ai vertici della Tunisia nel 2019 «un po’ per caso, un po’ per occulte manovre interne ed estere» e anche per via «dell’ignavia e dell’egoismo delle élites sociali e intellettuali tunisine», ha fatto regredire il Paese riportandolo indietro a oltre dieci anni fa.

A parlare in questa intervista per Popoli e Missione è Chiara Sebastiani, sociologa, analista ed esperta di Tunisia, già docente alla Facoltà di Scienze Politiche all’Università di Bologna e autrice di diversi saggi sul Paese.
«L’élite tunisina che lo ha appoggiato pensava di ricavarne qualcosa per se stessa e di regolare i conti con nemici e rivali interni -spiega- compreso il partito islamista Ennahda».

Oggi Saied è un pericolo per la libertà interna: ha modificato la Costituzione, la struttura interna di una democrazia fragile e abolito i Consigli municipali. Tuttavia in Europa se ne parla quasi esclusivamente per le misure razziste di “caccia al nero” inaugurate qualche mese fa. Perchè?

Da Tunisi Chiara Sebastiani ci racconta del pericoloso cul de-sac in cui si trovano i tunisini e la frenesia «di un’Europa interessata unicamente a bloccare le partenze migratorie dal Nordafrica».

Che ne è in questo momento dei giovani che hanno fatto la Rivoluzione il 14 gennaio 2011 e che sono stati traditi da Saied?

«Io penso che siano tutti in fila per imbarcarsi! I giovani hanno creduto in Kais Saied, in fondo lo hanno eletto loro nel 2019 e ora ne fanno le spese. Ho seguito molto vicino l’elezione presidenziale: uno dei primi esempi (locali) di enorme manipolazione attraverso i social media. Saied è stato eletto in un momento in cui il Parlamento era molto delegittimato dai conflitti interni tra partiti. La gente era delusa da questi dieci anni di post-rivoluzione: è arrivato lui a reiterare la critica alla politica corrotta e a garantire che avrebbe fatto molto per i giovani; il messaggio è passato. Non è un caso che i militari gli siano stati leali».

Cosa manca ancora per fare opposizione seria e mirata?

«Gli anticorpi della democrazia sono una cosa lunga da acquisire e Saied sta facendo di tutto per smantellarla e annientare il dissenso. La politica dell’alternanza non la si costruisce in dieci anni di storia e non dimentichiamo che la Tunisia prima dei 20 anni del dittatore Ben Ali ha vissuto 50 anni di regimi autoritari e prima altri 100 anni di regime coloniale francese».

Come è stato possibile per Saied imporsi modificando la Costituzione e scavalcare l’opinione pubblica del Paese?

«Ha di certo tessuto una tela di ragno ma non da solo: la tela in questi ultimi due anni l’hanno tessuta quelli che lo sanno fare, inaspettatamente anche l’esercito e sicuramente lo Stato ‘profondo’: quello che dopo la rivoluzione non è stato mandato a casa. Ho il grande sospetto che ci siano dietro anche Paesi come gli Emirati Arabi e l’Arabia Saudita che non vedono di buon occhio un Islam repubblicano e democratico».

Perchè solo oggi tutta Europa guarda con apprensione a Tunisi?

«Per via delle misure razziste adottate da Saied nei confronti degli immigrati Sub-sahariani che si trovano in Tunisia: ma l’atteggiamento europeo su questo è ipocrita. Ci scandalizziamo tanto per la politica discriminatoria di Saied ma noi siamo peggio. Piuttosto l’Europa in questi 12 anni di costruzione faticosa dello Stato non ha fatto nulla per sostenere la democrazia tunisina. Per i giovani e per la società civile. L’Ue non ha aperto mai le frontiere per far viaggiare questi ragazzi ed è stata lì a guardare, si è fatta solo due conti per vedere chi fermava meglio gli immigrati».

C’è il rischio di una seconda rivoluzione?

«La società tunisina non vuole una guerra civile, questo è sicuro: durante la Rivoluzione ci sono state 600 persone che si sono fatte ammazzare. Io penso che in questo contesto nessuno sia disposto a rischiare ancora. Almeno, non ad ingaggiare un conflitto interno».

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