L'Etiopia? Per i profughi eritrei è una nuova Libia

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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27 febbraio 2025

Tre giovani eritrei sono stati uccisi dalla polizia ad Addis Abeba, verso la fine di gennaio, mentre, insieme a numerosi altri detenuti, tentavano di fuggire dalla prigione in cui erano finiti come “clandestini”. Altri due erano morti, sempre in un tentativo di fuga, ma in un quartiere della città, all’inizio del mese. Cinque vite spezzate nel volgere di pochi giorni.

Uno di quei ragazzi, Hanibal, aveva appena 16 anni, terzo di tre fratelli di una famiglia di agricoltori. Veniva da Damba Mich, un piccolo centro nelle vicinanze del confine etiope all’altezza di Agordat. Studente, aveva lasciato la sua casa ormai da più di dieci mesi per sottrarsi alla chiamata di leva a tempo pressoché indeterminato che lo attendeva entro meno di due anni, prima ancora di finire il corso di studi, che avrebbe dovuto completare nella grande base militare di Sawa. Lo stesso motivo che aveva spinto a fuggire i due amici uccisi con lui e gli altri due giovani morti circa due settimane prima. Voleva raggiungere il fratello maggiore, Mussié Solomun, esule in Olanda ormai da tempo, ma non avendo il denaro per continuare la fuga, è rimasto bloccato ad Addis Abeba. Prima di lui era scappato dall’Eritrea anche il secondo fratello che, residente in una località più a nord di Damba Mich, aveva passato il confine con il Sudan dal Tigray pagando un ticket di 8 mila dollari a una organizzazione di trafficanti ma è stato fermato in Libia ed è ora intrappolato a Tripoli. Si è rivolto all’ufficio dell’Unhcr, che lo ha registrato tra i richiedenti asilo: ora è da mesi in lista d’attesa per un canale umanitario verso l’Europa.

Hanibal non si è lasciato scoraggiare dalla sorte di questo fratello più grande e alla prima occasione ha raggiunto e superato a piedi la vicina frontiera con l’Etiopia, affidandosi alla fortuna. I familiari hanno saputo della sua fuga solo quando era ormai ad Addis Abeba. Per mesi hanno sperato che ci ripensasse e rientrasse a casa, dove sono rimasti solo i due genitori, entrambi avanti negli anni. Anche per questo forse, già in difficoltà per l’aiuto dato al secondo figlio, non avevano raccolto, magari con il contributo dei parenti della “famiglia allargata”, il denaro per consentirgli di proseguire il viaggio. Lui ha continuato a insistere che non sarebbe mai tornato indietro. Finché è incappato in un posto di controllo della polizia nel quartiere di Lafto, non lontano dalla casa in cui aveva trovato alloggio. Immediato l’arresto e il trasferimento in carcere. Era in attesa del rimpatrio forzato in Eritrea quando, pochi giorni dopo, il 21 gennaio, decine di detenuti hanno tentato la fuga. Hanibal si è unito a loro. Ma la reazione delle forze di sicurezza è stata immediata, sparando ad altezza d’uomo. Tre giovani sono stati uccisi e almeno sette feriti. Tra i primi a cadere senza vita è stato Hanibal. Il suo corpo è ancora nell’obitorio dell’ospedale San Paolo di Addis Abeba. Per poterlo riportare in Eritrea – hanno riferito alcuni parenti – le procedure prevedono una spesa di circa 6 mila dollari. Ma i genitori non sanno come metterli insieme. Nello stesso obitorio sono finiti i corpi degli altri due ragazzi uccisi, di cui uno, Ataklti Isayas, morto per le gravi ferite il 23 gennaio, due giorni dopo la sparatoria, e l’altro, di cui la polizia non ha comunicato l’identità, all’inizio di febbraio.

Quando è accaduta questa tragedia la grande comunità di profughi eritrei che vive nel quartiere di Lafto stava già piangendo due ragazzi morti alcuni giorni prima. Fuggiti in momenti diversi dalla dittatura di Afewerki, i due si erano conosciuti ad Addis Abeba e, con l’aiuto di altri profughi, avevano trovato insieme un alloggio. Erano in casa quando sono stati sorpresi da un'irruzione della polizia. Le scale e l’uscita dell’edificio in cui si rifugiavano erano bloccate da numerosi agenti. Presi dalla disperazione hanno tentato il tutto per tutto calandosi da una finestra, a diversi metri dal suolo. Non ce l’hanno fatta. Precipitati nel vuoto l’uno dopo l’altro, sono rimasti a terra, gravemente feriti. Portati in ospedale sono morti entrambi in poche ore.

Le due tragedie sono state raccontate da un esule eritreo che, ormai da anni a Bologna, ha il passaporto italiano: quando c’è stata l’evasione seguita dalla sparatoria era ad Addis Abeba e per certi versi ha vissuta direttamente quei giorni drammatici attraverso la comunità eritrea di Lafto, dalla quale ha appreso anche della morte degli altri due ragazzi, constatando di persona quale sia oggi in Etiopia la condizione dei profughi fuggiti dalla dittatura di Afewerki. Lui stesso non era ad Addis Abeba per caso: era stato costretto a partire dall’Italia per cercare di aiutare il fratello minore, Mussié, di 19 anni, a sua volta in fuga dal regime. Una fuga di per sé emblematica, per come si è sviluppata, della sorte dei rifugiati che in Etiopia trovano una situazione estremamente diversa dall’accoglienza incontrata fino allo scoppio della guerra in Tigray, nel novembre 2020.

Mussié viene da Dekameré, una quarantina di chilometri a sud di Asmara. Per passare il confine, sul finire del mese di novembre 2024, si è affidato a un trafficante ed è stato incluso in un gruppo di 63 disperati che, in cambio di 6 mila dollari a testa, sono stati accompagnati a piedi fino alla frontiera. Il “passatore” che li guidava aveva assicurato che quel tratto di confine era “sicuro” ma proprio mentre lo stavano attraversando sono stati sorpresi da una pattuglia che ha cominciato a sparare. Nessuno è stato ferito ma la schiera si è rapidamente dispersa. Alcuni sono tornati indietro. Mussié e due compagni si sono addentrati di corsa nel territorio etiopico, allontanandosi il più in fretta possibile dal confine. Dopo un po’ hanno chiesto aiuto a un anziano, che li ha accolti in casa. Sembrava fatta e invece quell’anziano li ha venduti a una banda di trafficanti che hanno preteso da ciascuno 5 mila dollari per il rilascio. La famiglia ci ha messo diverse settimane per procurarsi il denaro ma quando ci è riuscita ha scoperto che Mussié era stato venduto a un’altra banda e per liberarlo sono serviti altri 2.500 dollari. Ora è ad Addis Abeba, ma in trappola: non può tornare in Eritrea perché finirebbe in una delle galere del regime e non riesce a continuare la fuga verso l’Europa perché tutte le vie sono bloccate.

La condizione dei profughi eritrei in Etiopia è da incubo, simile a quella della Libia – dice il fratello che lo ha raggiunto dall’Italia – Il sistema di accoglienza che funzionava da anni è stato spazzato via dalla guerra in Tigray. I quattro grandi campi che erano nel nord della regione non esistono più: devastati e sgomberati dalle truppe d’invasione di Afewerki, non sono stati mai riaperti. Nello stesso tempo il governo federale etiopico, sulla scia dell’alleanza con Asmara, ha cancellato le norme che garantivano lo status di rifugiati agli eritrei i quali, privi ormai di qualsiasi forma di tutela, sono esposti ad ogni genere di soprusi. Durante la guerra ci sono state persino numerosi arresti effettuati in Etiopia dalla polizia di Asmara. Ora queste retate condotte dagli eritrei sono finite ma si sono fatte sempre più stringenti e sistematiche le operazioni delle forze di sicurezza etiopi: una vera e propria “caccia” condotta lungo i confini, per le strade, nelle città, nei quartieri dove i rifugiati sono più numerosi. E quasi sempre gli arrestati vengono rimpatriati contro la loro volontà. Ci sono state almeno due deportazioni di massa, con un totale di oltre 700 disperati consegnati alla dittatura da cui erano fuggiti e praticamente ‘spariti’. Di loro non si sa più nulla”.

In questo clima da coprifuoco i profughi sono costretti a vivere nascosti, chiusi in casa il più possibile per evitare il rischio delle retate o anche di un semplice controllo per strada.

“Ad Addis Abeba quasi tutti gli eritrei fanno una vita da reclusi – riprende il fratello di Mussié – Per paura della polizia o di eventuali delazioni non possono lavorare. Anzi, non possono neanche andare dal medico o in ospedale. Sempre con la paura di essere catturati e rimpatriati. Per tirare avanti sono legati all’aiuto di familiari e amici che riescono a trovare il modo di inviare periodicamente un po’ di denaro. Sta dilagando l’hawala, il sistema che consente di trasferire contanti di nascosto attraverso persone fidate saltando il circuito bancario, visto che i profughi non possono certo presentarsi a uno sportello normale. Io, ad esempio, ho trovato un amico al quale verso di tanto in tanto una certa somma perché la faccia avere a Mussié. Ma è una situazione terribile. Non so per quanto tempo questi ragazzi riusciranno a resistere. Tanto più che la polizia ha cominciato a fare irruzioni anche direttamente nelle case, come è accaduto nel caso di quei due giovani che, come mi hanno raccontato, sono precipitati da una finestra nel tentativo di sottrarsi alla cattura. Un barlume di soluzione potrebbe essere quello di rivolgersi all’Unhcr, il Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, che ha una sede anche ad Addis Abeba. Qualcuno ci ha provato ma, per quanto ne so, persino l’Unhcr può fare molto poco perché il Governo ne limita al massimo l’attività. C’è solo da sperare che la sede centrale di Ginevra solleciti un chiarimento alle autorità federali etiopiche in modo da poter prendere sotto la tutela dell’Onu come richiedenti asilo gli eritrei presenti nel paese e poi organizzare dei canali umanitari, magari non necessariamente verso l’Europa ma, ad esempio, in Kenya o in Uganda”.

Da queste testimonianze emerge una situazione simile a quella della Libia. Salvo il fatto che dall’Etiopia si può ovviamente fuggire solo per vie di terra.

Tentare la fuga da soli – spiega il fratello di Mussié, rientrato in Italia da una decina di giorni – è un azzardo enorme. Le strade sono fortemente presidiate, con frequenti posti di blocco. E tutte le linee di confine blindate: con il Kenya e il Sud Sudan ma soprattutto quella con il Sudan, nel nord, la via più battuta fino a qualche tempo fa dai profughi diretti verso la costa libica. La zona più a rischio è il Tigray, dove ad ogni passo si può essere fermati dalla polizia o intercettati dalle guardie di frontiera oppure anche dalle milizie amhara che hanno invaso la regione. Non solo. Lungo questo itinerario si sono organizzate bande di trafficanti che, specie nelle zone non troppo lontane dalla frontiera, intercettano e sequestrano chiunque capiti a tiro, da solo o in gruppi più o meno grandi, pretendendo poi dalle famiglie riscatti per migliaia di dollari. Nessuno ne parla ma per i profughi eritrei anche questo è un lascito della guerra che si è combattuta in Tigray tra il novembre 2020 e il novembre 2022. Ecco, quella guerra per i rifugiati eritrei non è mai finita. Ed ha trasformato l’Etiopia in una nuova Libia…”.

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