07 maggio 2018
Attrice, autrice e regista, Marzia Ercolani è fondatrice e presidente di Atto Nomade un’associazione culturale e compagnia teatrale che si pone come obiettivo la diffusione di “Un’arte che smuova gli umori, che non compiaccia, che non distragga, un’arte che risvegli, nel riso e nel pianto, che sposti dalle terre conosciute, che infonda il coraggio di guardare più in là e restituisca la ricchezza di partire, la gioia di tornare, di crescere nel mondo in evoluzione primitiva". Conduce, inoltre, laboratori teatrali rivolti a giovani studenti di arte drammatica ma anche a utenti psichiatrici e disabili: uno spettacolo su Alda Merini - I Colori Maturano La Notte – appare, dunque, come una tappa quasi obbligata all’interno di un simile percorso.
Quando hai incontrato la poesia di Alda Merini e come è nato questo progetto?
Alda pare sia con me da sempre, è la mia ape regina, io un’apetta operaia. Credo di essermi imbattuta nei suoi versi al liceo. Alda ha un linguaggio poetico trasparente, profondo e radicale, capace di toccare le sensibilità dei giovanissimi o di coloro che solitamente non frequentano la scrittura poetica. Motivo per il quale ho scelto la sua figura, il suo diario, le sue parole, per questo progetto. Ero in prova anni fa con un altro spettacolo nella sala teatro dell’associazione Ex Lavanderia, che ha sede nel padiglione lavanderia dell’ex manicomio della provincia di Roma dentro il parco del Santa Maria della Pietà. Quell’anno venne organizzato un festival itinerante tra i padiglioni psichiatrici e il parco, ideato da Hossein Taheri e dall’associazione stessa, chiamato “Linea 35”, la linea del tram che una volta portava in manicomio. In tanti fummo invitati a partecipare al festival, tema comune ad ogni intervento “la follia”. Quella fu l’occasione in cui nacque il primissimo step di questo progetto. Volevo raccontare al festival cosa accadeva nei manicomi prima della legge Basaglia. Volevo una forma semplice, narrativa, popolare, che avesse un valore informativo perché tra il pubblico ci sarebbero state anche tante famiglie, bambini, ragazzi, anziani che frequentano il parco quotidianamente. Avevo bisogno di un personaggio che sapesse parlar loro, un personaggio al quale potessero affezionarsi, dalla parola immediatamente toccante. Alda ne era capace nonostante forse oramai fin troppo abusata dalle continue citazioni che fioccano sul web o considerando il “personaggio mediatico” degli ultimi anni al quale lei giocava senza mai farsi contaminare. Tutto questo sfruttamento superficiale ha comunque il merito di aver dato una luce diffusa al sentire poetico e, accanto alla sua scrittura immensa, anche la fama che Alda ha conquistato nell’ultimo periodo della sua vita mi ha convinta a scegliere la sua voce per raccontare quell’inferno. Nasce così “I Colori Maturano La Notte - Confessioni Di Una Diversa Alda Merini”: ho ripreso in mano le pagine del suo decennio in manicomio, ossia “L’Altra Verità: Diario Di Una Diversa” e “Terra Santa”, poi vari aforismi, versi tratti da altre raccolte e ho elaborato una drammaturgia.
Il 9 maggio, al Teatro della Visitazione, porterò in scena un’ulteriore evoluzione di questo progetto e a breve tornerò anche al Santa Maria della Pietà. Il 13 maggio saranno 40 anni della legge 180: un legge tanto contestata e certamente imperfetta perché molto c’è ancora da fare e non possiamo lasciare sole le famiglie che devono confrontarsi tutti i giorni con i disturbi mentali di un loro caro. Ma la legge, a mio avviso, nonostante tutte le falle ha segnato un grande passaggio culturale e politico. Purtroppo attuato con difficoltà e malamente. Per dare risposte politiche e concrete alla gestione terapeutica e sociale delle malattie mentali è importante ripartire dalla storia stessa di questa gestione. Ho affiancato spesso questo spettacolo a piccoli momenti di confronto con il pubblico, ho avuto modo di invitare più volte per intervistarlo il premio Basaglia Adriano Pallotta, ex infermiere del Santa Maria della Pietà, che si ribellò al regolamento e che racconta da anni nelle scuole e nel suo libro “Scene Da Un Manicomio” cosa davvero accadeva dentro lì dentro ai degenti. E anche che la maggior parte di coloro che venivano internati non erano affatto pazzi: semmai, lo diventavano lì dentro, vittime di una terribile censura sociale (ragazze madri, donne adultere, omosessuali, alcolisti, bambini orfani).
Stefano Scarfone, che ne ha firmato le musiche originali e si esibisce in scena con te, è un musicista il cui talento è riconosciuto e premiato: come siete arrivati a questa collaborazione?
Stefano ed io ci siamo conosciuti tramite amici comuni. Inizialmente ci siamo trovati a condividere con gli altri serate goliardiche senza mai aver modo di vederci all’opera sul palco. Poi andai ad un suo concerto. E rimasi a bocca aperta per la delicatezza, la potenza e la maestria del suo tocco, davvero un chitarrista e un compositore di grandissimo talento. Poco dopo accadde che mi vide in scena proprio con questo progetto. Nelle prima versione ero accompagnata dalla chitarra elettrica e dalla voce di Sonia Scialanca, con la quale avevo una ottima empatia, ma per una serie di scelte di vita differenti avevamo difficoltà a incastrare i nostri impegni e il progetto stentava a decollare. Era dunque nello stato delle cose che avremmo dovuto stringerci la mano e salutarci: così facemmo e ringrazio ancora Sonia per la sua dolcezza e la sua sensibilità. Stefano Scarfone vide la nostra ultima replica, venne da me dopo lo spettacolo e mi disse “voglio essere in questo progetto”. Insieme ci siamo messi al lavoro: ho rielaborato la drammaturgia e le musiche di Stefano hanno concimato e continuano a concimare questa terra santa.
Il Teatro ha da sempre un importante valore sociale: qual è il messaggio che, secondo te, in questo momento di crisi non solo economica ma anche culturale, è più importante veicolare attraverso esso?
La natura stessa del teatro è il messaggio. Bisogna agire, nel famoso qui e ora. Allenarsi a sentire e a sentirsi, a mettersi nei panni altrui, all’ascolto. Allenarsi a giocare seriamente. A stimolare la capacità critica su se stessi e sulle cose, uscire da casa per entrare ogni tanto nel pianeta dell’anima umana con la propria unicità ma anche con una dimensione collettiva, diventare spettatore e protagonista, ossia essenza vitale, ricezione e azione. E aggiungo: compiere atti nomadi. Portare le proprie antenne in nuovi pascoli, recuperare una transumanza del sentire e del vedere.
La tua esperienza con psichiatrici e disabili ti permette un punto di vista privilegiato sull’effetto che l’arte della recitazione ha su di loro: cosa puoi raccontarcene?
Potrei parlare ore ma non credo riuscirei a dire tutto. Giocare davvero ha effetti su chiunque riesca ad affidarsi al gioco, al di là delle diversità fisiche e psichiatriche. Ma per entrare nel merito della domanda, a volte gli ostacoli, i limiti, le deformità mentali o fisiche attraverso il gioco e l’espressione di sé possono magicamente diventare ricchezze. Posso fermamente dire che oltre all’enorme valore terapeutico che il teatro e altri linguaggi espressivi hanno nei pazienti psichiatrici e nei disabili in termini di libertà espressiva ritrovata, di gioco collettivo, di meritato protagonismo, di divertimento e spazio per raccontare e raccontarsi, per sentirsi unici e al contempo uguali, io ribalterei la domanda e invito a riflettere sull’effetto che l’arte della recitazione sui pazienti psichiatrici e sui disabili provoca a noi “normodotati” che abbiamo la possibilità di essere loro spettatori. Un enorme, grandissimo, specchio di purezza, verità, meraviglia, unicità, istinto che troppo spesso noi “sani” perdiamo nei meandri della ragionevolezza e del vivere quotidiano. D’altronde “Anche la follia merita i suoi applausi” diceva Alda.
Sei un’artista eclettica e ricca di tante esperienze diverse tra loro: c’è qualcosa che hai sempre voluto fare, non sei ancora riuscita a realizzare ma conti di mettere in scena in futuro?
Tantissimo vorrei fare e non ho ancora potuto o saputo fare. Il mio eclettismo credo derivi dal contenuto stesso che scelgo di affrontare e che durante l’elaborazione mi suggerisce lo stile e l’approccio più adatto al progetto stesso, dalla comicità alla dramma. Anche per la scrittura è così: alterno poesia, drammaturgia, racconti, soggetti cinematografici e canzoni. Tento sempre di restare aperta all’ascolto e all’osservazione del materiale che ho di fronte, di non chiudermi in un genere. Tante le ciambelle buone, altrettante quelle senza buco: tutto parte del percorso. I progetti da realizzare ancora sono molti e ne verranno anche altri, tenterò di non tradirli, di dar loro vita. Purtroppo devo fare i conti con le mie possibilità di artista indipendente, condizione che ho scelto e che detta tempi lunghi e grandi ostacoli ma che offre una dose di libertà della quale sono gelosa. L’obiettivo di questo mio presente è quello di essere indipendente ma non sola: e lentamente in questi anni ho intercettando le forze, la fiducia, l’energia, la professionalità e il talento di altri compagni di lavoro con i quali è bellissimo fare squadra. Adesso, ulteriore meta indispensabile è quella di avere un sostegno produttivo e distributivo maggiore.
Nonostante tutt’ora mi dedichi volentieri a progetti di narrazione, la mia scrittura scenica preferita, nella quale mi pare di mettere davvero alla prova la mia creatività e la mia ricerca, è una scrittura onirico poetica, assai lontana dalla narrazione logica, più diretta e popolare. E a tal proposito, un progetto al quale tengo di più e che desidero realizzare nel prossimo futuro è una trilogia che sto scrivendo, METASTASIS - TRILOGY OF CHANGE e che ha già visto il debutto in forma di studio del secondo atto (HER 2 POSITIVE: TWICE A WOMAN, disponibile su YouTube): affronta il tema del cancro attraverso una drammaturgia appunto poetico - onirica e attraverso il dialogo di più linguaggi scenici (video, audio, performativo). Cancro come simbolo del nostro vivere contemporaneo, della perdita del linguaggio cellulare originario, del senso primordiale delle cose. Ho bisogno di sostegno economico per dar luce a tutto questo, di provare molto, alterno esperienze residenziali a piccole fasi autoprodotte, quindi ovviamente il cammino è lento. Si tratta di una trilogia che prevede tre atti indipendenti uno dall’altro, che possano dunque viaggiare singolarmente come atti unici, ma che assieme facciano emergere un trittico legatissimo, un affresco del presente, un desiderio di rinascita, di evoluzione, avendo cura di non spiegare nulla, di non offrire una morale, un insegnamento ma solo uno scorcio delle cose non frontale, per condividere alcuni semi di intuizione, alcuni lapilli di pensiero così che possano incontrare i semi e i lapilli di chi avrà modo di fermarsi a guardare.
La bellezza dell’incontro è nel ponte che si crea. Come questa intervista, ulteriore piccolo mattone di quel ponte.