L’Ecologia lungo la Nuova Via della Seta (I parte)

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11 ottobre 2019
La Via della Seta: un nome evocativo di millenarie avventure, di spezie, di tessuti preziosi, di pericoli e predoni. Nell’immaginario, soprattutto quello italiano, la Via della Seta è il Milione di Marco Polo, il racconto che da Venezia e dalle prigioni di Genova porta al cuore della steppa, alla Cina attraverso deserti popolati da uomini e visioni. Una magistrale di commerci per carovanieri ed avventurieri, caduta in disgrazia – e i suoi splendidi caravanserragli e città con essa – tanto per dinamiche locali quanto per una tecnologia che consegnava ai mercanti gli oceani. Con le transoceaniche, le nuove scoperte, e la possibilità di spostarsi via mare, la rischiosissima e lentissima traversata via terra passava in secondo piano. Ma non per sempre.
Una nuova tecnologia rende nuovamente appetibile gli enormi spazi asiatici. Non più per le lente carovane ma per treni superveloci, doppiati da mezzi su ruota e su acqua con pari requisiti. Nasce quindi nel 2013 dalla volontà cinese di rispolverare dalla sabbia delle immense distese che la separano dall’Europa l’iniziativa di rianimare la Via della Seta con un ambizioso progetto, su strada, via ferrata, oceano. Una cintura che è di trasmissione ma anche di consolidamento macro-regionale con al cuore la Cina e che si estende su quattro continenti attraverso sei corridoi principali via terra, e un vettore marittimo. Una parte di questo progetto passa per i territori che erano originariamente parte della Via della Seta, e che sono oggi paesi indipendenti dello spazio ex sovietico.
Se ne è parlato con un intervento di chi scrive, presso l’ICTA, l’Istituto di Scienze e Tecnologia Ambientale dell’Università autonoma di Barcellona.1 Lo scopo era analizzare il progetto nella prospettiva del quadro di giustizia ambientale e questioni ecologiche dei paesi attraversati o lambiti da questa nuova cintura che diverrebbe comunque una macroregione con crescente intercomunicazione anche sociale, culturale, economica. Non si tratta quindi solo di vettori di trasporto. L’analisi all’ICTA si è concentrata sugli aspetti di trasparenza e accountability di macro progetti, ma è divenuta anche l’occasione per fare una panoramica sull’ecologia nello spazio post sovietico interessato concentrandosi, paese per paese, sulle principali criticità. A cominciare dai paesi dell’Asia Centrale.
Asia Centrale
Per Asia centrale si intende qui l’area ex sovietica che ospita cinque paesi: il Kazakhstan, il Tajikistan, il Kirghizistan, l’Uzbekistan, e il Turkmenistan. Non sorprendentemente, i cinque sono anche detti gli –Stan: sono paesi accumunati fra loro dal passato sovietico, in cui si parlano due famiglie linguistiche differenti, musulmani a costituzione laica, nessuno dei quali ha accesso al mare aperto. Difficile definire l’Asia Centrale una regione integrata, anche se ha finora evitato l’estrema conflittualità del vicino Caucaso. Indipendenti dal 1991, gli Stan sono stati attraversati da vicende differenti nei tumultuosi anni che hanno seguito il crollo dell’URSS. Una massa di terra nel cuore dell’Asia, che in parte si sviluppa in altezza attraverso i suoi picchi da cui sgorgano le contese acque così necessarie alle locali produzioni di elettricità e cotone, e in parte in profondità, nelle viscere dei pozzi di idrocarburi così iniquamente divisi fra i 5 Stan.
Già questa breve introduzione fa luce su due risorse – acque ed idrocarburi – il cui sfruttamento ha creato e crea non solo enormi tensioni transfrontaliere, regionali e geopolitiche, ma anche crisi ecologiche.
Cambiamenti climatici e sicurezza
Uno studio combinato2 ha portato a evidenziare quali siano le grandi sfide che i cambiamenti climatici comportano in Asia Centrale ed ha portato a identificare una serie di criticità nella regione, hotspots con alto livello di rischio. L’elenco spazia da aree affette da desertificazione, soggette a alluvioni o a incendi, invasioni di locuste o di insetti portatori di virus o pericolosi per l’uomo, zone di stoccaggio di materiali chimici e/o radioattivi, scioglimento di ghiacciai, tutti fenomeni noti quando si parla di cambiamento climatico. Questi vanno poi quantificati nell’impatto che hanno sulla sicurezza alimentare, sulla salute, sulla disponibilità di acqua e di terreno arabile. In base all’intersecarsi del livello ambientale e dell’impatto sull’uomo vengono segnalati una serie di aree ad alto rischio.
La Valle del Fergana è una di queste. Area densamente popolata, con disponibilità contesa di pascoli, di accesso a terreni arabili e alle acque, a causa dei cambiamenti nei regimi e della qualità delle acque dell’Amur Darya e del Syr Darya, i due grandi fiumi della Valle è ad alto rischio. Non a caso già teatro di scontri interetnici nel 2010.
Stanno divenendo zone ad alto rischio i confini Afgano-Tagico e Afgano-Turkmeno a cause di ricorrenti eventi metereologici estremi. La stessa questione si pone per l’alta montagna: i disastri regionali legati a slavine o fenomeni acuti interessa comunità montane sempre più vulnerabili, cosa che sta avendo ripercussioni anche sociali e politiche, con manifestazioni di dissenso da parte dei residenti, la cui sicurezza ed economia sono sempre più ipotecate dai comportamenti di un meteo sempre più impazzito.
I due grandi mari chiusi asiatici, l’Aral e il Caspio, portano i segni dello sfruttamento intensivo e di politiche poco oculate in tema ambientale. Mentre l’agonia dell’Aral è ormai inarrestabile e il riscaldamento globale contribuisce all’accelerazione del processo di desertificazione dell’un tempo florido ed esteso bacino, i comportamenti del Caspio vengono valutati a rischio medio, soprattutto per le fluttuazioni del bacino d’acqua.
Queste alcune delle grandi sfide prettamente transfrontaliere che riguardano i cinque Stan. Ad esse si aggiungono le eredità sovietiche che ognuno di essi ospita, inquieti spettri ambientali che infestano la nuova Via della Seta.
1. Marilisa Lorusso, The Eco-Silk Road: Ecology&Development in South Caucasus and Central Asia, Institute of Environmental Science and Technology (ICTA), Universitat Autònoma de Barcelona, 23 Jan. 2018.
2. Opera di Environment and Security (ENVSEC) Initiative – che comprende l’Organizzazione per la Sicurezza e Organizzazione in Europa, il Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), il Programma per l’Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP), la Commissione per l’Economia Europea delle Nazioni Unite (UNECE), e il Centro Regionale per l’Ambiente per l’Europa Centrale ed Orientale (REC). Il report è disponibile al sito https://www.osce.org/secretariat/355471?download=true

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