14 novembre 2020
In Etiopia spirano venti di guerra. Guerra civile, quella che scava le ferite più profonde e difficili da sanare. Addis Abeba accusa di ribellione il governo regionale del Tigrai, sostenendo che tutte le sue ultime scelte politiche sarebbero in contrasto con le leggi federali e la stessa Costituzione. Da Macallé, di contro, il leader tigrino Debretsion Gebremichael contesta al presidente Abiy Ahmed di perseguire un programma di forte accentramento, soffocando le libertà e le autonomie regionali su cui è basata la Repubblica federale dalla destituzione del dittatore Menghistu nel 1991.
Senza entrare nel merito del contrasto, sta di fatto che la via del confronto è stata presto abbandonata ed ora a parlare sono le armi. Nel modo più feroce. Stando a fonti di entrambe le parti, dopo appena pochi giorni di conflitto si contano già centinaia di morti: militari ma anche civili inermi. Si dice almeno 500 nel campo tigrino e genericamente “alcune centinaia” in quello federale. Inoltre, feriti, bombardamenti, distruzioni. E profughi, tanti profughi. Secondo il governo di Khartoum sono già più di 10 mila quelli entrati in Sudan nei primissimi giorni di guerra e ancora di più quelli che si ammassano alla frontiera, tanto che la Commissione statale per i rifugiati si aspetta, di questo passo, non meno di 200 mila arrivi. Si ripete, in una parola, lo scenario terribile di ogni guerra. Per di più in una realtà, il Corno d’Africa, già di per sé molto fragile e sconvolta da numerose altre situazioni di crisi estrema.
Di fronte alle migliaia di migranti e richiedenti asilo che ogni giorno bussano alle porte dell’Europa in cerca di aiuto, molto spesso ci si chiede perché mai in così tanti decidano di abbandonare la propria terra. “Perché non rimangono a casa loro”, oppure “perché non aiutarli a casa loro” sono domande sempre più ricorrenti, non di rado in modo strumentale. Quanto sta accadendo in Tigrai è una risposta più che esauriente a questi “perché”. Per capirlo, del resto, basterebbe leggere i versi struggenti di Warsan Shire: “…lasci la casa solo / quando la casa non ti lascia più stare / Nessuno lascia la casa a meno che la casa non ti cacci /fuoco sotto i piedi / sangue caldo in pancia / qualcosa che non avresti mai pensato di fare / finché la falce non ti ha segnato il collo di minacce…”.
Allora, se davvero si vuole “aiutarli a casa loro” il primo passo da fare è intervenire subito per far deporre le armi e riportare le due parti al tavolo delle trattative. Arrivare alla pace ad ogni costo. Perché in guerra “nessuno vince mai”. E’ questo il senso dell’appello lanciato da don Mosè Zerai, per conto dell’agenzia Habeshia, alle istituzioni internazionali. Lo pubblichiamo integralmente di seguito.
Centinaia di vittime: militari e civili inermi. Migliaia di profughi: molti rifugiati in Sudan, altri in attesa di poter varcare il confine. Sono passati appena pochissimi giorni da quando è stato sparato il primo colpo di fucile ma è già pesantissimo il bilancio di morte della guerra in Tigrai, la regione nel nord dell’Etiopia al confine con l’Eritrea e il Sudan.
Il premier etiope Abiy Ahmed si rifiuta di chiamarla guerra. Insiste che le operazioni militari in corso sarebbero solo un intervento per domare una ribellione interna: per quanto dolorosa, una emergenza interamente nazionale, provocata dal governo regionale del Tigrai, che si sarebbe posto fuori dalle leggi federali e dalla Costituzione stessa. Il presidente tigrino, Debretsion Gebremichael, di contro, accusa Addis Abeba di soffocare le libertà e le autonomie regionali, nel contesto di una politica di forte accentramento.
Senza entrare nel merito del contrasto, è innegabile che si tratta di una dolorosa guerra civile. I rapporti terribili che arrivano dalle due parti, ogni giorno di più, parlano di vite perdute, bombardamenti, distruzioni, profughi, sfollati: esattamente il quadro di morte e sofferenza che si configura con qualsiasi guerra. E, per di più, lo scenario rischia di allargarsi. Ricorre insistente la notizia che anche l’Eritrea sarebbe entrata o si appresterebbe ad entrare nel conflitto al fianco di Addis Abeba o che comunque avrebbe consentito alle truppe etiopi di entrare nel suo territorio per sferrare un attacco al Tigrai anche dal confine orientale.
Il Tigrai soffia sul fuoco di questa notizia, che viene invece smentita sia dall’Etiopia che dall’Eritrea. Nella chiusura totale delle comunicazioni dall’intera regione, scattata quando la parola è passata alle armi, è molto difficile una verifica fondata. Ma la tensione che indubbiamente si è creata anche alla frontiera fra Tigrai ed Eritrea conferma il rischio che la guerra civile in Etiopia possa innescare una escalation incontrollabile non solo nella stessa Etiopia ma nell’intero Corno d’Africa, un’area strategica, addirittura vitale, per la pace in tutto il continente africano e non solo.
Allora, qualunque sia la causa di questo già così sanguinoso conflitto, occorre fermarsi subito, prima che la situazione, già difficilissima, diventi irreversibile: far tacere le armi, senza perdere nemmeno un istante, per aprire la strada al dialogo. Perché la guerra non ha mai risolto i problemi, neanche uno: semmai li ha ampliati e aggravati e ne ha creati di nuovi. E di problemi da risolvere il Corno d’Africa ne ha già fin troppi. Basti citarne alcuni dei più emergenti:
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Il contrasto per le acque del Nilo che vede contrapposti l’Etiopia da una parte e il Sudan ma soprattutto l’Egitto dall’altra e che potrebbe alla lunga coinvolgere anche gli altri Stati rivieraschi (Sud Sudan, Uganda, Kenya, Tanzania, Rwanda, Burundi, Congo) ma, di conseguenza, l’intera Africa.
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La minaccia sempre presente ed anzi crescente del terrorismo, che ha ormai messo radici profonde in molti paesi, a cominciare, ad esempio, dalla Somalia e dal Kenya.
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I disastri ambientali, la siccità sempre più lunga e ricorrente e la conseguente, feroce carestia, che da anni stanno desertificando le campagne e svuotando i villaggi, provocando migliaia di morti e milioni di sfollati e profughi. Per citare un esempio, solo quest’anno e nella sola Somalia, secondo i rapporti delle Nazioni Unite, già a gennaio si contavano oltre 800 mila tra profughi e sfollati dovuti alla guerra e alla crisi ambientale e diretti dalle campagne verso le periferie delle grandi città, con un trend in crescita che a metà anno ha portato a superare abbondantemente il milione di persone.
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L’invasione delle locuste. Iniziata più di un anno fa, è considerata la più grave e la più lunga dell’ultimo secolo. Milioni di ettari di colture sono andati distrutti in Somalia, Kenya, Etiopia, Eritrea, compromettendo fortemente la produzione di beni per il fabbisogno alimentare e moltiplicando, dunque, i già gravi problemi di forniture sufficienti per l’intera popolazione.
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La fame e la miseria endemiche. Ne sono colpite da anni milioni di donne, uomini e soprattutto bambini in diverse zone della vasta regione dell’Africa Orientale. Sempre per restare al caso Somalia, nel settembre 2020 il Food Security and Nutrition Unit (Fsnau) ha calcolato che 2,1 milioni di persone erano esposte a una insicurezza alimentare acuta e che si prevedeva un peggioramento ulteriore della situazione nel prosieguo dell’anno, fino a dicembre. Non va meglio in Eritrea, dove l’ultimo rapporto dell’Unicef sull’Africa orientale e meridionale (febbraio 2020) segnala che oltre il 60 per cento dei piccoli fino a 5 anni di età è esposto a gravi problemi di denutrizione. O in Sud Sudan, dove questo rischio riguarda dal 50 al 59 per cento dei bambini.
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La pandemia di coronavirus. La pandemia è in costante crescita in tutta l’Africa. Secondo i dati pubblicati il 10 novembre, si sono superati 1,9 milioni di casi. Di questi, 231.400 riguardano l’Africa Orientale, dove tra i paesi più colpiti figurano l’Etiopia, la Somalia e Gibuti. Con tutto quello che ne consegue.
La fuga di milioni di giovani costretti ad abbandonare la propria terra dove, a causa del combinarsi dei motivi appena elencati, ritengono di non avere più prospettive di una vita dignitosa. Un’autentica “fuga per la vita” sicuramente comprensibile ma che, al di là delle tragedie individuali, sta uccidendo il futuro stesso dei paesi di provenienza.
Ecco. In questo scenario già di per sé durissimo, una guerra civile in Etiopia, con la prospettiva di un allargamento ad altri Stati, potrebbe rivelarsi il colpo di grazia: l’inizio di una generale destabilizzazione sociale ed economica di tutto il Corno d’Africa, vanificando i faticosi processi di crescita e di trasformazione che, pur tra mille difficoltà, sono stati avviati negli ultimi trent’anni nella regione. E per l’Etiopia – che pure, con le riforme avviate a partire dal 2018, soprattutto nella fase iniziale del governo di Abiy Ahmed, ha suscitato grandi speranze in tutta l’Africa – potrebbe persino configurarsi una sorta di deprecabile implosione: uno scenario che, sotto la spinta di forze centrifughe alimentate dalle varie realtà etnico-.regionali, nell’ipotesi più estrema rischierebbe di portare addirittura a una balcanizzazione del Paese. Va da sé che l’intero Corno d’Africa ne sarebbe sconvolto.
Da qui un nostro accorato appello. Chiediamo:
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Alle parti in conflitto di deporre subito le armi e di aprire un dialogo.
- Alle maggiori istituzioni internazionali – a cominciare dalle Nazioni Unite, dall’Unione Africana, e dall’Unione Europea – ai singoli Stati africani e occidentali, alle maggiori potenze mondiali di intervenire al più presto e con tutta la capacità di mediazione e persuasione di cui dispongono perché si arrivi subito a un cessate il fuoco come premessa per l’apertura di un dialogo che porti a soluzioni accettate da entrambe le parti in causa.
Riteniamo che la guida di questo sforzo comune debba essere la convinzione che “in guerra nessuno vince mai”. In guerra perdono tutti. In particolare, perdono per prime le persone più deboli e fragili: la popolazione inerme, i bambini, gli anziani, i poveri. E’ una constatazione che vivono ogni giorno proprio molti paesi del Corno d’Africa, dove negli ultimi anni sono affluiti milioni di profughi e rifugiati in fuga da guerre, dittature, terrorismo, persecuzioni, carestia. In una parola, in fuga da situazioni di crisi estrema. Tutto serve, meno che alimentare un’altra di queste crisi.