Strage Di Garabulli, Esposto Alla Procura Di Roma: “Giustizia Per Quelle 130 Vite Spezzate”

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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27 giugno 2021

Sono rimasti abbandonati in mezzo al Mediterraneo. Per quasi due giorni. Erano in 130. Giovani che, in fuga da vari paesi dell’Africa subsahariana, inseguivano il sogno di una vita migliore. E sono morti tutti. E’ la tragedia che si è consumata il 22 aprile, 43 miglia a nord di Garabulli. La più grave degli ultimi mesi sulla rotta che dalla Libia porta verso Lampedusa e l’Italia. La barca, un gommone bianco, era partita dalla costa di Khums, circa 120 chilometri a est di Tripoli, intorno alle 22 di martedì 20 aprile. Poche ore e non è stata più in grado di navigare, mentre il mare volgeva a burrasca. La richiesta di aiuto è stata intercettata dalla piattaforma di soccorso Alarm Phone, che verso le 10 del mattino di mercoledì 21 ha lanciato l’allarme a tutte le autorità interessate: per prima la centrale Mrcc Italia e poi, a seguire, Rcc Malta, la guardia costiera libica, l’Unhcr, i soccorritori delle Ong. A questo dispaccio ne sono seguiti ancora, quasi ora per ora, documentando come la situazione si stesse facendo sempre più drammatica, anche perché le condizioni meteo stavano peggiorando ancora, rapidamente. Nessuno è intervenuto. Per quasi due giorni. Nessuno si è preoccupato persino di allertare la nave Bruna, un cargo che, salpato da Misurata e diretto a Cartagena, si è trovato a passare a breve distanza ma, all’oscuro dell’emergenza, ha proseguito la rotta. Così, tra la tarda mattinata e il primo pomeriggio di giovedì 22 aprile, il gommone si è sfasciato ed è andato a fondo. Senza superstiti. L’unica a rispondere agli Sos di Alarm Phone è stata la Ocean Viking, la nave umanitaria della Ong Sos Mediterranee, ma si trovava a circa 200 chilometri di distanza, all’altezza di Zuwara: quando è giunta di fronte a Garabulli ha trovato solo cadaveri e i rottami del gommone.La sciagura di queste 130 giovani vite spezzate è stata sollevata ora di fronte alla Procura di Roma. Per accertare se, oltre alle evidenti responsabilità morali dei tanti che si sono voltati dall’altra parte, ostinandosi per quasi due giorni a non rispondere alle richieste di aiuto, ce ne siano anche di giuridico-legali. L’iniziativa è stata presa da alcune associazioni e Ong, oltre che da singole persone. Sono il Comitato Nuovi Desaparecidos (rappresentato dal coordinatore Emilio Drudi), la Fondazione Open Arms (Oscar Camps), l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione Asgi (Lorenzo Trucco), Alarm Phone (Britta Rabe), Mediterranea Saving Humans (Vanessa Guidi), l’Arci (Filippo Miraglia), Progetto Diritti (Mario Angelelli) e, in proprio, il senatore Gregorio De Falco, gli avvocati Alessandra Ballerini, Emiliano Benzi, Michele Calantropo, Stefano Greco, Serena Romano, Arturo Salerni.Oltre a ricostruire nei dettagli i due giorni di agonia dei 130 naufraghi, nell’esposto viene sollevata una serie di punti che chiamano in causa tutte le autorità istituzionali contattate per i soccorsi ma, in particolare, la centrale Mrcc di Roma, con la quale le comunicazioni sono state più frequenti e intense.

1 – “Rimpallo” di responsabilità nell’organizzare i soccorsi.
Alle 11 di giovedì 21 aprile il gommone in difficoltà è stato localizzato con precisione. La comunicazione delle coordinate geografiche, però, anziché far scattare immediatamente i soccorsi ha dato luogo a uno “scarico di competenze” su chi dovesse intervenire. Eppure era evidente che si trattava di una emergenza estrema, con 130 vite ad alto rischio. “Sarebbe stato necessario – si legge nell’esposto – attivarsi nel più breve tempo possibile e nella maniera più efficace. Le indicazioni e le prescrizioni della cosiddetta legge del mare sui soccorsi non lasciano adito a dubbi in proposito. Ma Mrcc Roma non risulta che abbia preso iniziative: né direttamente, né assicurandosi almeno che Tripoli si facesse carico di far fronte nel modo migliore e più rapido all’emergenza. Non giustifica questa inerzia di Roma neanche il fatto che il gommone si trovasse nella zona Sar libica. La normativa Sar internazionale, infatti, si basa sull’attivazione dei Centri all’arrivo della notizia”. Ovvero: Mrcc Roma avrebbe dovuto attivare un intervento di soccorso diretto o quanto meno verificare che le operazioni di soccorso fossero state assunte in maniera adeguata da un Centro di coordinamento più vicino al punto dell’emergenza e seguirne l’evoluzione fino alla conclusione. Tanto più sapendo bene che Tripoli “non è in grado né di monitorare le navi civili in zona, né di comunicare con esse”. Sapendo bene, cioè, che Tripoli non è in grado di far fronte a un’emergenza come quella che si era presentata.

2 – La nave Bruna.
Secondo i firmatari dell’esposto, è uno degli aspetti più sconcertanti: “Alarm Phone ha dato informazione specifica della provvidenziale presenza di questa nave proprio a Mrcc Roma. Tuttavia Roma non ha diramato alcun avviso navtex, sulle onde medie terrestri, né alcun avviso Inmarsat, via satellite, come avviene sempre in questi casi. Né ha ritenuto di requisire la nave Bruna come avrebbe richiesto la circostanza per i soccorsi, che sarebbero così potuti arrivare in breve tempo evitando la tragedia”.

3 – La delega totale alla Libia.
Alle 14,11 del 21 aprile Mrcc Roma ha risposto all’ennesima telefonata di Alarm Phone che si doveva rivolgere alle “autorità competenti” ovvero alla Libia, visto che la tragedia si stava svolgendo nelle acque della zona Sar libica. Solo che, passate ormai 4 ore dal primo allarme, a quel punto appariva evidente che Tripoli non era intervenuta. Anzi, non era nemmeno raggiungibile al telefono. Alarm Phone non ha mancato di farlo notare. “Ma Roma – si legge sempre nell’esposto – non ha cambiato linea, trincerandosi di fatto, evidentemente, dietro l’alibi della zona Sar libica, senza tener conto che, in quelle condizioni specifiche, sapendo bene che la Libia non si stava muovendo, né aveva mezzi tecnici per intervenire o inviare navi mercantili, avrebbe dovuto assumere il controllo direttamente o quanto meno sollecitare e anzi pretendere un’azione immediata da parte di Tripoli”. E’ vero che mezz’ora più tardi, alle 14,44, un ufficiale libico ha comunicato ad Alarm Phone che il pattugliatore Ubari, con base a Tripoli, stava cercando in mare tre barche, incluso il gommone dei 130. Ma è un appiglio che non regge. Va da sé, infatti, che un solo pattugliatore non poteva occuparsi contemporaneamente di ben tre emergenze, una delle quali, peraltro, si stava svolgendo al largo di Zuwara, oltre 90 miglia a ovest di Garabulli. E infatti la Ubari ha totalmente ignorato il caso in questione.

4 – L’aereo di Frontex.
Alle 19,15 del 21 aprile il gommone risultava ancora alla deriva, abbandonato a se stesso. Nessuna traccia del pattugliatore Ubari che, come si saprà in seguito, dopo aver soccorso un altro natante, ha invertito la rotta puntando verso la Libia. La conferma di questa situazione è arrivata da un aereo dell’agenzia Frontex, che ha sorvolato la zona. Tuttavia, si fa rilevare, “neanche a questo punto Mrcc Roma risulta che abbia preso qualche iniziativa” ed anzi oltre un’ora più tardi, alle 20,52, alle insistenze di Alarm Phone, l’ufficiale in servizio si sarebbe limitato a rispondere “Stiamo facendo il nostro lavoro”, pur non potendo ignorare a quel punto che “un solo pattugliatore libico era insufficiente a portare soccorso a più natanti”.

5 – L’inerzia delle autorità libiche e italiane.
Dieci ore circa dopo il primo allarme, alle 22,22 un ufficiale libico ha comunicato ad Alarm Phone che Tripoli non aveva intenzione di cercare il gommone in difficoltà a causa delle cattive condizioni meteomarine. La Ong ha segnalato immediatamente questa risposta a Mrcc Roma. Ma ancora una volta (ore 22,55), nonostante fosse ormai fin troppo chiaro che la Libia si era tirata indietro, la centrale operativa italiana non si è attivata: non risulta nessun intervento di soccorso diretto, né una qualche azione per chiedere conto a Tripoli del suo operato. Insomma, una inerzia totale, che si è protratta per l’intera notte tra il 21 e il 22 aprile.

6 – Navi di soccorso senza coordinamento.
Intorno alle 8 del 22 aprile (oltre 22 ore dopo il primo allarme) è iniziata finalmente una operazione di ricerca condotta da più navi: la Ong Ocean Viking e tre cargo, la Lisbeth, la Alk e la May Rose. Ma la Libia, nonostante si sia attribuita una zona Sar enorme, non è in grado di gestire questo tipo di interventi: “Non dispone – si legge nell’esposto – di una centrale di coordinamento propria, di un sistema di controllo del traffico marittimo e civile, di un sistema di comunicazione Navtex o Inmarsat, di sottostazioni radio costiere, di una flotta aerea da ricognizione e soccorso, ecc. Mrcc Roma conosce bene questa situazione, ma neanche a questo punto ha deciso di intervenire”. Le quattro navi hanno così proceduto “in autogestione” e senza ricognizione aerea.

7 – La denuncia di Frontex.
L’inerzia di Mrcc Roma appare tanto più inspiegabile alla luce del fatto che, come si è scoperto la mattina del 22 aprile, oltre che da Alarm Phone è stata avvertita della grave emergenza anche da Frontex fin dalla sera di mercoledì 21, dopo che il ricognitore Osprey 1, di base a Lampedusa, aveva sorvolato il gommone, intorno alle 19, prima della notte che è stata il preludio del naufragio. Ne ha dato notizia ad Alarm Phone la stessa Frontex, specificando di aver allertato sia Roma che Malta. “Ne consegue – si rileva nell’esposto – che la Libia non è stata presa in considerazione neanche da Frontex, probabilmente perché l’agenzia europea sa bene che Tripoli non ha una centrale di coordinamento per la zona Sar. Ma qualunque sia il motivo, è chiaro che a quel punto Tripoli era fuori gioco”. Eppure Roma ha continuato a restare inerte.

Il risultato è che il gommone, abbandonato a se stesso per quasi due giorni, in condizioni meteomarine particolarmente difficili, si è praticamente disfatto, provocando la morte di 130 persone. Ben 130 vite spezzate senza che si sia neanche affacciato l’intervento di una sola nave “istituzionale” di soccorso: né libica, né maltese, né tantomeno italiana. “La condotta tenuta dalle autorità italiane – si rileva dunque nell’esposto – appare in palese contrasto con gli obblighi internazionali assunti e con quanto previsto dalle norme di diritto interno. In particolare, a livello internazionale, risulterebbero palesemente violati gli obblighi assunti per i soccorsi in mare con le convenzioni Solas del 1974, Sar firmata ad Amburgo nel 1979 e quella delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos firmata nel 1982 a Montego Bay e ratificata dall’Italia nel 1994 con una legge specifica).

La conclusione dei firmatari dell’esposto è che questo comportamento, con la strage che ne è conseguita, potrebbe non essere casuale ma legato alla “finzione” della zona Sar libica. Che Tripoli non sia in grado di gestire una zona di ricerca e soccorso in mare, difatti, sembra più che evidente: non a caso sono stati inviati almeno due ricorsi all’Organizzazione Marittima Internazionale (Imo) per chiedere una revoca. Troppo spesso, però, questa realtà viene ignorata. Anzi, la “presenza formale” di una zona Sar libica finirebbe per diventare quasi un alibi per “giustificare” la scelta di non intervenire da parte delle “autorità” europee. E’ eloquente quanto si dice in proposito nell’esposto, citando anche due esempi registrati prima e dopo la strage: “Episodi simili a questa tragedia, con un rimpallo di competenze e responsabilità o addirittura con la delega totale alla Libia per intervenire in casi di emergenza, sono molto frequenti, anche se sottaciuti o addirittura ignorati. E’ una situazione che di volta in volta sembra configurare delle pesanti corresponsabilità o addirittura complicità da parte italiana, perché a Roma nessuno può ignorare due elementi essenziali. Il primo è che ogni intervento libico sulle barche dei migranti si risolve, di fatto, non in un salvataggio ma in un respingimento di massa in mare, attuato in concreto da Tripoli ma sostanzialmente su delega dell’Italia, di Malta e dell’Europa. Il secondo è che l’inadeguatezza o addirittura l’incapacità della Libia a gestire una zona Sar portano, come conseguenza diretta, a numerosi episodi di mancato soccorso, non di rado con decine di morti”.

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