Le mafie sono in connessione intima con il sistema agricolo nazionale e internazionale. La terra ha sempre rappresentato la carta di identità originaria di clan, 'ndrine e cosche varie. Possedere in via esclusiva terreni e aziende agricole, insieme a tutto ciò che con esse deriva, costituisce per le mafie l'espressione di una potenza che legittima, anche sotto il profilo sociale, il loro dominio sulle cose dell'uomo e della natura. Non è vero che è un business superato. Esso è invece ancora il seme del loro potere e della loro identità. Quest'attività criminale ha assunto dimensioni e organizzazioni avanzate. Secondo Gian Carlo Caselli, responsabile dell'Osservatorio sulle Agromafie, e Gian Maria Fara, presidente di Eurispes, ancora oggi la mafia “condiziona il mercato, stabilendo i prezzi dei raccolti, gestendo i trasporti e lo smistamento, il controllo di intere catene di supermercati, l'esportazione del nostro vero o falso made in Italy, la creazione all'estero di centrali di produzione dell'Italian sounding”. Le mafie sono ancora una centrale di produzione di ricchezza e di potere che affonda radici e identità nei terreni agricoli, nei prodotti ortofrutticoli che da essi derivano, nei grandi mercati ortofrutticoli d'Italia e nella catena del valore e del profitto che concorre, insieme alle strategie e pratiche scorrette della grande distribuzione organizzata, a determinare i prezzi dell'ortofrutta italiana, stritolando la buona impresa e il lavoro dignitoso e contrattualizzato. Le cifre parlano chiaro. Secondo l'Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil sarebbero circa 450mila nel 2020 i lavoratori e le lavoratrici che in agricoltura, ogni anno, vivono forme varie di sfruttamento lavorativo e disagio abitativo, di cui circa 180mila obbligati a vivere condizioni paraschiavistiche. Si consideri che nel 2018 coloro che vivevano condizioni di grave sfruttamento erano “solo” 140mila. Dunque, in soli 24 mesi, si è registrato un aumento di circa 40mila persone. Significa che ogni mese nel corso degli ultimi 2 anni sono precipitati nel grave sfruttamento, circa 1.650 persone, ossia 55 al giorno. Un'emorragia sulla quale si continua a intervenire in modo superficiale. Secondo Thomas Casadei, docente di Teoria e prassi dei diritti umani presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Modena e Reggio, “nei paesi europei, la clandestinità ‒ creata dalle legislazioni sulle migrazioni ‒ è il terreno sul quale crescono tutte le crudeltà, a scapito dello ius migrandi e della libertà di movimento delle persone ma anche a scapito delle tutele nel mondo del lavoro. In tal senso emerge la connessione – sempre più dura – tra immigrazione e forme estreme di sfruttamento che possono configurarsi come vera e propria riduzione in schiavitù. In quella che è stata definita “età dei diritti” si è costretti a registrare la loro più massiccia violazione e la più profonda e intollerabile disuguaglianza di persone rese vulnerabili e lasciate nell’ombra, come esseri “invisibili”".
Per fare un esempio concreto, in piena pandemia, il 23 aprile del 2020, a Latina sono stati arrestati due imprenditori agricoli, notificato il divieto di dimora nella provincia di Latina per altre tre persone e sequestrate due società agricole attive nel settore ortofrutticolo e florovivaistico. L'indagine ha ricostruito un collaudato sistema di reclutamento e sfruttamento di lavoratori italiani e migranti impiegati con modalità illecite al servizio delle due aziende. Le vittime hanno raccontato le condizioni lavorative degradanti a cui erano sottoposte, in ambienti invasi da umidità e fango e senza alcun presidio di protezione. I braccianti, secondo la Procura locale, erano obbligati ad accettare ogni condizione degradante pur di lavorare, spesso completamente ignari delle leggi italiane e inconsapevoli dei contratti di lavoro che avevano firmato. La giornata di lavoro era di oltre 10 ore, per 26 giorni al mese, senza che venissero riconosciuti eventuali straordinari per le ulteriori ore prestate, senza alcuna copertura sanitaria, senza retribuzione aggiuntiva in caso di festività o riposo settimanale. La paga giornaliera era di 30-32 euro, per uno stipendio mensile che oscillava tra i 500 e gli 800 euro, corrispondente dunque a meno di 4 euro all’ora, con grave rischio di infettarsi da Covid. Il caporalato o intermediazione illecita, riconosciuto come reato penale dalla legge 199/2016, denota un agire e una mentalità mafiosa, spesso sedimentata attraverso pratiche di reclutamento e sfruttamento che conducono alla violazione dei diritti del lavoro e della dignità umana. Il caporale e il padrone sono un'associazione a delinquere e i metodi di reclutamento e impiego sono fondati sulla violenza, sulla subordinazione, sull'omertà e su forme varie di controllo e pressione che comprendono il tempo e lo spazio di lavoro ma quello sociale e privato del lavoratore e della lavoratrice. La loro relazione criminale viola diritti diffusi e costituisce un vincolo grave anche per l'imprenditoria onesta.
Ne è convinto anche Giuseppe Pontecorvo, capo della Squadra Mobile di Latina, secondo il quale: “In questa provincia il mondo agricolo rappresenta una ricchezza e può vantare tantissime aziende sane, il caporalato però rischia di danneggiarne l’immagine. Per questo, negli ultimi anni, è stata condotta dalla magistratura e dalle forze dell’ordine un’attività di contrasto allo sfruttamento e all’inquinamento senza precedenti. In particolare, indagini della Polizia di Stato hanno documentato la corresponsione di retribuzione orarie pari a 4 euro all’ora, l’imposizione dello svolgimento di 10 ore di lavoro consecutivo senza la previsione di pause, la formalizzazione di un numero di ore di lavoro o giornate lavorative nettamente inferiori rispetto a quelle effettivamente prestate, ovvero l'impiego illecito di fitofarmaci non autorizzati nelle coltivazioni in serra. In tale contesto, vi sono recenti inchieste coordinate dalla Procura di Latina che hanno provato a far luce su un sistema volto a favorire l'immigrazione clandestina con richieste di denaro, falsi documenti, corruzione. Rimangono pertanto alte le attenzioni investigative affinché queste condizioni di sfruttamento non si rivelino prassi diffuse: bisogna però puntare a fare squadra e, come si sta facendo, far convergere gli interessi di tutte le parti sociali, delle associazioni datoriali e dei sindacati, per combattere insieme un fenomeno che non è mai sopito e rischia di continuare ad inquinare l’economia”.
Non solo caporalato e sfruttamento però. Sarebbe ingenuo pensare che le agromafie siano solo sfruttamento e violenza. Milioni di euro stanziati dai fondi europei per l'agricoltura vanno, ad esempio, ancora troppo spesso nella disponibilità delle mafie e non degli imprenditori agricoli onesti. A questo banchetto siedono tutte le mafie, con il loro stuolo di avvocati, commercialisti e consulenti compiacenti e corresponsabili. Numerosi clan messinesi, a gennaio del 2020, ad esempio, avrebbero fatto affari d'oro intascando indebitamente fondi europei destinati ai produttori agricoli. Lo stesso vale per il clan dei Casalesi infiltrati nel settore della commercializzazione del latte in Campania, tanto che proprio a gennaio 2020 Polizia di Stato e Guardia di Finanza hanno eseguito una ordinanza nei confronti di 7 persone, accusate di aver favorito il clan dei Casalesi per infiltrarsi nel settore della distribuzione e della commercializzazione del latte. Secondo quanto emerso dall’attività investigativa, coordinata dalla DDA di Napoli, il clan si era infiltrato nel settore attraverso un’azienda fittiziamente intestata a prestanome. Con questa operazione è stato anche contestato il reato di trasferimento fraudolento di valori, con l'aggravante mafiosa. Le indagini sono state condotte dalla Squadra Mobile di Napoli, dal Commissariato di Castellammare di Stabia e dal G.I.C.O. del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Napoli.
Nel Metapontino, invece, vanno ancora di moda le truffe ai danni dell'Inps per l'assunzione di falsi braccianti nelle aziende agricole. Nello specifico, i Carabinieri del Ros e la Guardia di Finanza hanno arrestato 94 persone nel corso del più importante blitz compiuto contro i clan mafiosi messinesi dei Nebrodi che puntavano ai soldi dell'Ue, intascandoli indebitamente per oltre 5,5 milioni di euro attraverso centinaia di truffe all'Agenzia per le erogazioni in agricoltura (AGEA), l'ente che eroga i finanziamenti stanziati dall'Ue ai produttori agricoli. L'affare era condotto dai clan storici di Tortorici, paese dei Nebrodi, i Batanesi e i Bontempo Scavo, che, anche grazie all'aiuto, come spesso capita, di un notaio compiacente e di funzionari dei Centri Commerciali Agricoli (CCA), istruivano le pratiche per l'accesso ai contributi europei per l'agricoltura. I due clan, peraltro, risultavano in questo affare alleati, dividendosi virtualmente gli appezzamenti di terreno, in larghissime aree della Sicilia ed anche al di fuori dalla regione, necessari per le richieste di sovvenzioni. “Ciò - scrive il gip che ha disposto gli arresti su richiesta della Dda di Messina - con gravissimo inquinamento dell'economia legale, e con la privazione di ingenti risorse pubbliche per gli operatori onesti”.
Così le mafie “dei padroni e dei padrini” si espandono nell'agricoltura italiana, nonostante i negazionisti e chi continua ad affermare che colpire caporali e trafficanti significherebbe impedire agli imprenditori agricoli onesti di lavorare e produrre beni d'eccellenza.