Il lavoro tramite piattaforma in Italia fra evidenze empiriche e proposta di direttiva UE

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07 gennaio 2022

È cosa oramai nota che la pervasiva diffusione e l’utilizzo intensivo delle tecnologie digitali, e in particolare delle piattaforme digitali, hanno trasfigurato non solo le pratiche produttive e il modo in cui le persone consumano, ma anche come esse lavorano, producendo un impatto non trascurabile sui mercati del lavoro e determinando, di conseguenza, effetti di non poco conto anche in relazione alla condizione dei platform workers. Ciononostante, quando si parla di lavoro reso tramite piattaforme digitali si fa riferimento a un fenomeno sfuggente e di difficile quantificazione.

In considerazione di ciò, appaiono particolarmente interessanti i risultati dell’indagine PLUS (Participation, Labour, Unemployment, Survey), condotta dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche nel 2021, riguardanti consistenza, tipo di attività e caratteristiche del lavoro tramite piattaforma in Italia. Tali risultati sono diffusi il 4 gennaio 2022, non a caso pochi giorni dopo la presentazione da parte della Commissione europea, il 9 dicembre 2021, della proposta di direttiva sul miglioramento delle condizioni di lavoro dei lavoratori delle piattaforme.

Lo studio “Lavoro virtuale nel mondo reale: i dati dell’indagine INAPP-PLUS sui lavoratori delle piattaforme in Italia” offre anzitutto un quadro statistico essenziale e aggiornato a proposito del lavoro tramite piattaforma in Italia, assai utile a fotografare un fenomeno del quale molto si discute e sul quale si va concentrando una crescente attenzione non solo degli addetti ai lavori, ma anche dell’opinione pubblica (basti pensare che la parole “rider” e “logistica”, spesso utilizzate proprio nel contesto della platform economy, sono state annoverate fra quelle che hanno caratterizzato l’anno che si è appena concluso – accanto, fra le altre, a “variante” e “complotto” – dalla redazione de L’Essenziale, n. 8/2021).

La ricerca, condotta fra marzo e luglio 2021 su un campione di 45.000 persone fra i 18 e i 74 anni, ha censito 570.521 lavoratori tramite piattaforma, che a loro volta rappresentano poco più di un quarto di coloro che in vario modo ottengono un guadagno attraverso le piattaforme digitali (ad esempio, vendendo prodotti o affittando beni di proprietà). I platform workers sono rappresentati in prevalenza da coloro che consegnano a domicilio cibo (36,2%, i c.d. riders ai quali si faceva prima riferimento) o altri prodotti (14%, i c.d. drivers), ma significativa è anche la percentuale di coloro che eseguono attività on-line (34,9%); in percentuali minori sono presenti lavoratori domestici (9,2%) e coloro che sono dediti all’accompagnamento di persone in automobile (4,7%). Ciò significa che circa il 65% delle attività riferite dagli intervistati può essere ricondotta a prestazioni rese a beneficio di piattaforme location-based (si pensi, ancora una volta, al lavoro dei riders), mentre il restante 35% riguarda attività svolte esclusivamente on-line a beneficio di piattaforme web-based. Per rendere le proprie prestazioni lavorative il 45% dei platform workers utilizza una sola piattaforma, il 47% ne utilizza due e il restante 8% più di due.

Il fenomeno interessa una popolazione di lavoratori variegata anzitutto in relazione al titolo di studio posseduto: quasi il 50% hanno un titolo di istruzione secondaria superiore, il 20% circa hanno conseguito una laurea, il 30% circa posseggono un titolo di istruzione secondaria inferiore. Oltre il 75% dei platform workers sono uomini. In relazione all’età, si tratta di lavoratori prevalentemente concentrati nella fascia 30-49 anni (circa il 70%), ma con una buona percentuale anche di ultracinquantenni (circa il 20%). Con riferimento allo status occupazionale, il 48,1% dei platform workers considerano il lavoro svolto per la piattaforma come la loro principale occupazione, il 24,4% come un’attività secondaria e il 27,5% si definiscono come inattivi o come in cerca di occupazione, pur lavorando occasionalmente a beneficio di una piattaforma. Ciononostante, solo il 64% dei lavoratori intervistati dichiara di aver lavorato la settimana precedente la rilevazione.

Se si passa, poi, a esaminare l’inquadramento contrattuale, il 31,1% afferma di svolgere la prestazione lavorativa in virtù di accordi informali, e quindi in carenza di un accordo che regoli i rapporti contrattuali con la piattaforma, il 24,9% in forza di un contratto di prestazione occasionale, il 19,9% in virtù di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa, il 5,9% come titolare di partita IVA, il 6,6% con altre forme di lavoro autonomo.
Convitato di pietra è, come noto, il lavoro subordinato, stimato all’11,5%, con tutto ciò che inevitabilmente ne consegue in termini di (mancata) protezione da parte della disciplina giuslavoristica; il che, peraltro, conferma quanto preconizzava acutamente Gaetano Vardaro, il quale sosteneva – in Tecnica, tecnologia e ideologia della tecnica nel diritto del lavoro, pubblicato nel 1986 in Politica del diritto – che l’innovazione tecnologica avrebbe rafforzato la «radicale divaricazione fra subordinazione tecnica e subordinazione esistenziale».

Parrebbe, quindi, confermato quanto osservato anche in altri Paesi (si pensi, ad esempio, alla Francia) in relazione all’aumento del ricorso al lavoro autonomo parallelamente all’emergere, prima, e al consolidarsi, poi, del ricorso al lavoro tramite piattaforma. Ciò pare giustificarsi dal momento che le formalità richieste per poter prestare la propria attività attraverso le piattaforme, che – come si è visto – utilizzano in via pressoché esclusiva lavoratori autonomi, sono relativamente semplici, e le condizioni richieste (spesso sono sufficienti una bicicletta e uno smartphone connesso a internet, in relazione al lavoro dei rider che ne rappresenta, come si è visto, una delle manifestazioni maggiormente rilevanti) sono sovente agevolmente soddisfacibili.

Interessante è anche la circostanza che approssimativamente il 70% dei platform workers hanno dovuto svolgere un test o una prova prima di iniziare a rendere la prestazione lavorativa, soprattutto nell’ambito dei rapporti con piattaforme location-based. Circa il 25% dei platform workers intervistati dichiarano di non gestire direttamente il proprio account di lavoro, disvelando in tali ipotesi condizioni di ridotta autonomia quando non addirittura di intermediazione illecita e/o di sfruttamento lavorativo, come hanno già testimoniato le indagini di diverse Procure italiane, le quali hanno messo in luce fenomeni di neoschiavismo e caporalato digitale. Si pensi, ad esempio, all’indagine della Procura di Milano che si è conclusa nel maggio 2020 disponendo la misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria nei confronti di Uber Italy dal momento che, pur essendo la società destinataria del provvedimento parzialmente estranea alla realizzazione delle condotte di intermediazione illecita e di utilizzo di manodopera (e, in particolare, di migranti richiedenti asilo) in condizioni di sfruttamento, la stessa beneficiava dei risultati dell’attività criminosa.

Lo studio prende in esame anche i sistemi di valutazione dei lavoratori da parte degli algoritmi che sottintendono al funzionamento delle piattaforme e le conseguenze delle eventuali valutazioni negative da essi riportate. Quanto al primo aspetto, a incidere sulla valutazione della prestazione sono anzitutto il numero di incarichi portati a termine (59,2%) – il che fa il pari con il largo utilizzo del cottimo come parametro di commisurazione del compenso, sul quale si tornerà a breve –, il giudizio dei clienti (42,1%) e il tempo di esecuzione degli incarichi (15,1%). In relazione, invece, alle conseguenze disciplinari, per utilizzare un linguaggio che richiama l’assetto tipico del lavoro subordinato, si va dalla riduzione degli incarichi più redditizi (40,7%) al peggioramento degli orari entro i quali svolgere gli incarichi (25,2%), dalla riduzione degli incarichi in generale (25%) al mancato pagamento della prestazione svolta (4,3%), sino a giungere in ipotesi estreme alla disattivazione dell’account del lavoratore e, quindi, all’impossibilità di continuare a rendere la propria prestazione a favore della piattaforma (2,8%).

Tutto ciò a dimostrazione del fatto che da un lato, nonostante la formale qualificazione del rapporto come autonomo, molto spesso il lavoro tramite piattaforma cela prestazioni rese di fatto in regime di subordinazione, senza però che a ciò consegua anche l’applicazione della relativa disciplina protettiva; dall’altro, che l’algoritmo non è affatto neutro nell’attribuzione degli incarichi e nel trarre dai comportamenti dei lavoratori determinate conseguenze, e che anzi – come hanno di recente dimostrato le cronache giudiziarie – esso può arrivare a realizzare pratiche discriminatorie nei confronti di determinati lavoratori. Si pensi, a tale proposito, al provvedimento con il quale il Tribunale di Bologna ha affermato, il 31 dicembre 2020, il diritto dei riders a non essere discriminati nelle condizioni di accesso al lavoro a prescindere dalla qualificazione del loro rapporto di lavoro, così censurando il c.d. algoritmo Frank adottato da Deliveroo, che privilegiava nella distribuzione dei turni di consegna il ciclofattorino che si fosse reso disponibile a garantire tutte le fasce di prenotazione e che al contempo penalizzava, estromettendolo lentamente dal ciclo produttivo, colui che invece non avesse assicurato la stessa disponibilità per motivi di salute, di assistenza a familiari ovvero per l’adesione a iniziative sindacali o di sciopero. Una questione cruciale, che intreccia inevitabilmente il tema del lavoro reso tramite piattaforma con quello del lavoro povero, o della povertà nonostante il lavoro, è quella del compenso che i platform workers ricavano dalle prestazioni rese. La stragrande maggioranza dei lavoratori su piattaforma – ed è questo un dato particolarmente significativo nell’ottica di cui sopra – considera essenziale, o comunque molto importante, per soddisfare le proprie esigenze di vita il reddito così percepito: la percentuale si attesta addirittura all’80,3% (solo tre anni prima, nel 2018, tale percentuale si assestava al 49%). Ciò, peraltro, conferma quanto sottolineato in precedenza anche da altri circa la fondamentale importanza di tali c.d. “lavoretti” quali principale fonte di sostentamento per coloro che li rendono.

In particolare, per il 32,1% dei platform workers il compenso così percepito è di vitale importanza per soddisfare le proprie esigenze fondamentali, per il 48,2% rappresenta una componente importante, ma non essenziale, del budget familiare, mentre per il restante 19,7% si tratta di una fonte di entrate utile, pur dichiarando questi ultimi di poter riuscire a vivere tranquillamente anche a prescindere da tale strumento di integrazione del reddito principale.

Sul versante dei criteri per stabilire il compenso da corrispondere ai lavoratori tramite piattaforme digitali, quel che emerge dall’indagine è che essi sono equamente suddivisi fra coloro che vengono pagati a cottimo (50,4%) e coloro che sono, invece, pagati in proporzione al tempo lavorato (49,6%). Nel 69,3% dei casi, le piattaforme applicano un importo orario minimo per la determinazione del compenso. Tale compenso, inoltre, è pagato dal cliente finale nel 53,2% dei casi, dalla piattaforma nel 33,9% dei casi e da “altri soggetti” nel 12,9% dei casi (il che adombra possibili, e ulteriori, ipotesi di caporalato digitale).

Un ulteriore importante elemento di riflessione è offerto dalle motivazioni che sottostanno alla scelta di lavorare tramite piattaforma: per il 50,7% dei lavoratori si tratta in sostanza di una scelta obbligata, derivante dall’impossibilità di potersi collocare in differenti occupazioni, per il 36,9% si tratta di un impiego che consente loro di avere maggiore autonomia nell’esecuzione della prestazione, e solo il 12,4% sceglie tali occupazioni come fonte di integrazione del reddito. Il che sfata, ancora una volta, il mito del lavoro tramite piattaforma come lavoro reso occasionalmente, essendo divenuto oramai per molti platform workers la principale fonte di entrate familiari.

Questo quadro statistico, ancorché parziale e certamente in divenire (si pensi solo alla crescente importanza anche quantitativa che i lavoratori in discorso hanno assunto e continuano ad assumere durante la fase dell’emergenza pandemica), descrive un modello di business sicuramente in espansione, all’interno del quale si conferma una sostanziale fragilità – dal punto di vista sia contrattuale, sia retributivo – che suggerisce la necessità di intervenire per potenziare la protezione sociale e assicurare livelli di reddito adeguati. Ed è proprio in quest’ottica che si colloca la proposta di direttiva alla quale si è fatto cenno in apertura, e alla quale è ora opportuno dedicare qualche rapida battuta.

Attraverso tale proposta, alla quale si è giunti anche in conseguenza di un approfondito studio che ha tentato di valutare l’impatto dell’introduzione di misure legislative europee sul miglioramento delle condizioni di lavoro dei platform workers, nonché di una lunga fase di consultazione e di ascolto, anzitutto delle parti sociali, la Commissione ha voluto dare seguito agli impegni politici assunti nell’ambito del piano d’azione per l’attuazione del Pilastro europeo dei diritti sociali, confrontandosi con lo spinoso tema della regolazione del lavoro tramite piattaforma.

Muovendo da un’ampia nozione di platform worker (“qualsiasi persona che svolge un lavoro mediante piattaforme digitali e ha un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro quali definiti dal diritto, dai contratti collettivi o dalle prassi in vigore negli Stati membri, tenuto conto della giurisprudenza della Corte di giustizia”), e comprendendo nel suo ambito applicativo non solo alcuni segmenti del fenomeno, ma l’insieme delle prestazioni rese tramite piattaforme digitali, “indipendentemente dal fatto che tale lavoro sia svolto on-line o in un determinato luogo”, obiettivo principale della proposta – come si anticipava – è quello di migliorare le condizioni di lavoro e i diritti delle persone che lavorano mediante piattaforme digitali.

Per raggiungere tale obiettivo, si individuano tre obiettivi specifici.

Anzitutto, il Capo II della proposta mira ad assicurare ai platform workers l’accesso a un corretto inquadramento giuridico qualora essi svolgano la loro prestazione in forma subordinata, e quindi al ricorrere di determinati presupposti sui quali pure la proposta si sofferma (v. infra), con la conseguente applicazione delle tutele lavoristiche e previdenziali. A tale proposito, la norma centrale è quella che mira a introdurre una presunzione legale di subordinazione (art. 4). Si prevede, in particolare, che debba essere considerata rapporto di lavoro subordinato, in forza di una presunzione legale semplice (suscettibile di prova contraria a carico del datore di lavoro), la relazione contrattuale che lega il lavoratore alla piattaforma.
Ciò accade qualora la piattaforma controlli l’esecuzione del lavoro, il che si realizza in presenza di almeno due degli indici che la disposizione individua: (a) la determinazione effettiva da parte della piattaforma del compenso o la fissazione di limiti massimi al compenso; (b) l’imposizione da parte della piattaforma di alcune specifiche condotte al lavoratore in relazione all’aspetto, al comportamento nei confronti del destinatario del servizio o all’esecuzione del lavoro; (c) la supervisione dell’esecuzione del lavoro da parte della piattaforma o la verifica da parte di quest’ultima dei risultati del lavoro, anche per il tramite di mezzi elettronici; (d) l’effettiva limitazione da parte della piattaforma, anche mediante l’irrogazione di sanzioni disciplinari, della libertà del lavoratore di organizzare il lavoro, e in particolare della facoltà di scegliere l’orario di lavoro o i periodi di assenza, di accettare o rifiutare incarichi o di ricorrere a sostituti o subfornitori; (e) l’effettiva limitazione da parte della piattaforma della possibilità che il lavoratore si costruisca una propria clientela o svolga lavori per terzi.

La nozione di subordinazione che ne risulta è ben più estesa di quella nazionale fondata sul requisito della eterodirezione (art. 2094 c.c.), mentre pare avvicinarsi maggiormente a quella di eterorganizzazione di cui all’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81/2015. Essa lascia trasparire – attraverso l’individuazione di indici presuntivi alquanto ampi – un deciso favore nei confronti del riconoscimento a beneficio dei platform workers dello status di lavoratori subordinati e, di conseguenza, del connesso apparato di tutela. In sostanza, sembra potersi scorgere, fra le maglie della proposta, la volontà di fare della subordinazione il modello di regolazione predominante in relazione al lavoro tramite piattaforma.

Quello del corretto inquadramento giuridico della relazione contrattuale che lega il lavoratore alla piattaforma è – come si è anticipato, e come ha ben messo in luce anche lo studio INAPP-PLUS 2021 – uno degli aspetti maggiormente critici che caratterizzano anche il contesto italiano, all’interno del quale la gran parte di coloro che lavorano tramite piattaforma sono inquadrati come lavoratori autonomi e, dunque, sfuggono all’applicazione della normativa protettiva di matrice giuslavoristica, pur prestando la loro attività sovente in un regime di sostanziale subordinazione. D’altra parte, gli indici che la proposta enuclea potrebbero finire per integrare e rafforzare la nozione di subordinazione che il legislatore europeo ha elaborato in materia di libera circolazione dei lavoratori nell’Unione, e poi gradualmente esteso ai principali ambiti di incidenza del diritto dell’Unione sugli ordinamenti nazionali, andando ben oltre lo stretto perimetro del lavoro tramite piattaforma.

Il secondo obiettivo della proposta consiste nel proteggere i lavoratori contro i possibili abusi derivanti dall’utilizzo degli algoritmi che governano le piattaforme digitali. Attraverso le disposizioni contenute nel Capo III della proposta si cerca di intervenire proprio sulla gestione algoritmica del lavoro tramite piattaforma affinché essa sia improntata al rispetto dei principi di equità, trasparenza e responsabilità, anche mediante il conferimento di diritti individuali e collettivi di informazione e consultazione. In particolare, si prevede l’introduzione di diritti individuali di natura procedurale, il cui scopo è evitare che il lavoratore sia soggetto a decisioni algoritmiche automatizzate senza che vi sia una qualche forma di supervisione umana, e ciò anche a beneficio dei lavoratori genuinamente autonomi, nonché di diritti di informazione e consultazione a favore dei rappresentanti dei lavoratori o direttamente dei lavoratori, qualora non sia presente una forma di rappresentanza collettiva. Anche in questo caso, la proposta elaborata dalla Commissione centra uno degli aspetti maggiormente problematici che emergono pure dallo studio INAPP-PLUS 2021, vale a dire quello connesso ai possibili abusi conseguenti dalla gestione algoritmica, peraltro nient’affatto neutra, del lavoro tramite piattaforma.

Infine, il Capo IV della proposta contiene previsioni in tema di trasparenza e di accesso alle informazioni sulle condizioni di lavoro praticate dalle piattaforme. Si tratta di disposizioni finalizzate ad accrescere la trasparenza, la tracciabilità e la consapevolezza degli sviluppi del lavoro prestato mediante piattaforme digitali, anche in situazioni transfrontaliere, favorendo allo stesso tempo le condizioni per la crescita sostenibile delle piattaforme digitali che intermediano il lavoro nell’Unione.

Come è stato posto in luce dai primi commentatori, la Commissione europea ha sicuramente adottato – attraverso la proposta di direttiva – un atteggiamento audace nell’approcciarsi alla regolazione del lavoro tramite piattaforma, centrando molte delle criticità che caratterizzano tale settore e che pure sono state da ultimo sottolineate, in relazione all’Italia, dalle evidenze empiriche contenute nello studio INAPP-PLUS 2021. C’è solo da augurarsi che, anche sulla scia della risoluzione adottata dal Parlamento europeo il 16 settembre 2021, non si compiano ora passi indietro lungo l’impervio cammino che potrebbe auspicabilmente condurre all’adozione della direttiva, prima, e al suo recepimento interno, poi.

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