Dal magazine Leurispes: Quelle guerre che l’Italia e l’Europa non vogliono vedere

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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26 aprile 2022

Erano fuggiti dalle zona più vicine alla linea del fuoco fra le truppe del Fronte di liberazione tigrino (Tplf) e l’esercito federale etiopico con i suoi alleati eritrei. Una fuga piena di rischi e paure. Ma in quel campo profughi non lontano da Macalle, il capoluogo della “regione ribelle” del Tigrai, si sentivano ormai al sicuro. Una mattina dello scorso gennaio, invece, è spuntato all’improvviso un drone che ha mitragliato e bombardato il campo tre volte di seguito, prendendo di mira le baracche di alloggio. Alla fine si sono contate almeno 57 vittime: bambini, donne, anziani. Tutte persone fragili e inermi. La guerra le ha raggiunte anche lì: vittime due volte. Magari dopo essere sfuggite a un vero e proprio eccidio etnico. Come i circa 7 mila profughi (incluse almeno 26 ragazze vittime di stupri di gruppo) che si sono dispersi in campi come quello bombardato arrivando da Abala, una città al confine fra il Tigrai e la regione Afar, dove alla fine di dicembre 2021 si è registrato uno dei massacri più feroci di questa guerra feroce: decine, centinaia di tigrini prelevati casa per casa, ammazzati senza pietà e abbandonati per strada da miliziani Afar delle forze armate di Addis Abeba, affiancati da soldati eritrei. “Hanno ucciso, violentato, saccheggiato, arrestato ogni tigrino che trovavano in città. Fuggendo, ho visto centinaia di cadaveri: ragazzi, bambini, donne incinte…”, ha riferito una superstite ad Al Jazeera. Un eccidio paragonabile a molti altri. Ad esempio, l’esecuzione in massa di almeno 70 ostaggi catturati ad Adi Goshu e trucidati, nel gennaio 2021, vicino a un ponte sul Tacazzè, nel nord del Tigrai, al confine con il Sudan. Oppure, più ancora, la strage di Axum dove, all’inizio del conflitto, nel novembre 2020, truppe eritree hanno ucciso in tre giorni da 800 a mille persone, come ha documentato un’inchiesta di Amnesty.

È questo il volto della guerra in Tigrai, scatenata da Addis Abeba contro il governo regionale di Macalle guidato dal Tplf, l’unico sui dodici enti federali dell’Etiopia (dieci regioni più due città autonome) ad opporsi alle riforme di accentramento dei poteri introdotte dal presidente Abiy Ahmed. Una guerra su scala internazionale, perché l’Etiopia vi ha coinvolto fin dall’inizio, come alleate, prima l’Eritrea, con un ruolo determinante, e poi, sia pure in parte, anche la Somalia. Abiy Ahmed, però, l’ha contrabbandata come un semplice e rapido “intervento interno di ordine pubblico” contro l’esecutivo tigrino, che avrebbe violato la costituzione, ponendosi al di fuori della legge. Ma altroché “rapido”. Il conflitto va avanti dal 4 novembre 2020, con un bilancio di sangue e sofferenze terribile: oltre 2 milioni di sfollati (su una popolazione di 6 milioni), circa 75 mila profughi riparati in Sudan, quasi 100 mila morti. Anzi, secondo le stime di una equipe di ricercatori dell’università di Gand, in Belgio, addirittura almeno 400 mila morti: da 50 a 100 mila come conseguenza diretta dei combattimenti e delle rappresaglie, circa 200 mila per la mancanza assoluta di cibo, oltre 100 mila per la totale carenza di assistenza e cure mediche. Perché sono state distrutte tutte le strutture sanitarie, dagli ospedali ai semplici ambulatori di villaggio, e perché sono state usate come vere e proprie armi di guerra la fame e la carestia, devastando sistematicamente raccolti, armenti, depositi di cibo, centri di produzione ed impedendo agli aiuti umanitari di arrivare da oltre confine. Anzi, per umiliare e vincere la resistenza della popolazione, sono stati usati come arma di guerra persino gli stupri di gruppo, con vittime di ogni età: risultano almeno 1.500 le donne che hanno trovato la forza e il coraggio di denunciare, ma c’è da credere che il numero reale sia molto più elevato. E a questo orrore, quando nel giugno 2021 è iniziata la controffensiva vittoriosa del Tigrai, ha fatto riscontro una dura volontà di vendetta: secondo la Commissione etiopica per i diritti umani, dal giugno 2021 a oggi, nelle regioni Amhara e Afar raggiunte dall’avanzata delle truppe tigrine, si contano almeno 750 civili uccisi (incluse molte esecuzioni extragiudiziali), sequestri, torture, stupri, saccheggi. La Commissione Onu per i diritti umani propone da mesi un’inchiesta indipendente, ma si scontra con l’opposizione di Addis Abeba.

Verso la fine dello scorso mese di marzo il presidente Abiy Ahmed ha proposto una tregua per motivi umanitari, in modo da consentire l’arrivo di colonne di aiuti per le popolazioni più colpite dalla carestia: oltre 400 mila persone secondo l’Onu. Forse quasi 500 mila. Macalle ha subito accettato, ammonendo che avrebbe vigilato perché il cessate il fuoco sia davvero il primo passo per porre fine alla guerra e non una pausa per riorganizzarsi e armarsi ancora di più. Ma la tregua non sembra riguardare altri ribelli, in particolare quelli della regione Oromo che si sono schierati dalla parte dei tigrini e contro i quali è in corso una campagna di repressione da parte delle forze di sicurezza governative.

Perché le armi tacciano davvero sarebbe determinante un risoluto intervento della comunità internazionale. Ma fin dall’inizio questo disastro è passato pressoché sotto silenzio. Quasi nulla, in particolare, sui media, che si sono subito arresi all’embargo sulle notizie imposto da Addis Abeba. Nulla che destasse almeno un’emozione presso l’opinione pubblica, vanamente stimolata dalle mobilitazioni della diaspora tigrina in molte capitali europee. Una guerra sottaciuta all’inizio e ora dimenticata. Nonostante tutti i suoi orrori, quanto meno pari a quelli che scuotono gli animi per l’Ucraina. Del resto non è l’unico caso. Altrettanto dimenticate sono guerre non meno atroci, come nello Yemen, in Siria, nel Mali.

Tra la fine dell’estate del 2020 e il mese di dicembre 2021, come rivela un report dell’Onu, si calcola che nello Yemen siano morti quasi duemila bambini soldato: ragazzini di età compresa tra i 10 e i 17 anni prelevati dalle loro case, nei villaggi, e costretti a imbracciare un kalashnikov. È l’ultimo orrore di una guerra iniziata nel 2015 ma che affonda le radici nella primavera araba del 2011, quando una rivolta ha costretto il presidente Ali Abdullah Saleh a cedere il potere al suo vice, Mansour Hadi. Da allora la situazione è precipitata, fino alla rivolta condotta nel 2014 dal movimento islamico sciita degli Houthi che all’inizio del 2015, partendo dalla regione settentrionale di Sadaa, ha conquistato la capitale, Sanaa, costringendo Hadi all’esilio e il suo governo a rifugiarsi nel sud, ad Aden. A sostegno di questo governo, l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale, si è schierata una coalizione di sette stati (guidati dall’Arabia e dagli Emirati Arabi e sostenuti dagli Stati Uniti e da gran parte dei governi occidentali), che ha lanciato una serie di attacchi contro gli Houthi, con l’obiettivo dichiarato di riportare Hadi al potere e con la “giustificazione” che gli Houthi sarebbero sostenuti dall’Iran in vista di un nuovo equilibrio regionale.

È stato l’inizio di una escalation che ha precipitato nel caos il paese, già di per sé uno dei più poveri del mondo. I fronti più accesi degli ultimi mesi sono quelli dei governatorati di Ma’rib, Al Jawf, Al Badya, Dahle, Abyan, Shabwa e Hodeida, il principale porto sul Mar Rosso, controllato dagli Houthi. E alla guerra si sono aggiunte una siccità e una conseguente carestia come non si vedeva da decenni nella regione, una terribile epidemia di colera e una di difterite a cui è poi seguito il Covid. Senza contare il flagello per due anni di seguito delle locuste. Una tempesta perfetta che dura praticamente ininterrotta da sette anni. Anni lunghissimi e drammatici per la popolazione. Le conseguenze sono sconvolgenti. Basta leggere i rapporti della Ocha, l’Agenzia per gli interventi umanitari delle Nazioni Unite. Si calcola che i morti siano circa 380 mila, di cui oltre 100 mila come causa diretta dei combattimenti e gli altri a causa della fame e delle malattie. Oltre 20 milioni di persone (due terzi della popolazione) non hanno di che nutrirsi a sufficienza e potranno sopravvivere solo se arriveranno aiuti umanitari dall’estero. In particolare soffrono di malnutrizione acuta 2,3 milioni di bambini e di questi almeno 400 mila, fino a 5 anni di età, rischiano di morire nei prossimi mesi se non si interverrà al più presto. Difficile e limitato persino l’accesso all’acqua potabile. Almeno 4 milioni gli sfollati interni. Migliaia quelli che, nonostante enormi difficoltà, sono riusciti a rifugiarsi oltre confine e si affacciano ormai anche alle porte dell’Europa. In sostanza, secondo l’Onu, circa l’ottanta per cento della popolazione avrebbe bisogno di aiuto e protezione internazionale. Ma entrambi gli schieramenti in lotta impediscono l’accesso alle missioni umanitarie mentre sono sempre aperti e attivissimi i canali per la fornitura di armi. Non a caso, del resto, l’Onu ha più volte definito la situazione dello Yemen come la più grave catastrofe umanitaria attuale.

Uno spiraglio si è aperto alla vigilia del Ramadan quando, su proposta dell’Onu, le due parti in lotta hanno accettato una tregua di due mesi per ogni tipo di offensiva militare e il nulla osta per l’arrivo di navi ed aerei commerciali nel porto di Hodeida e nell’aeroporto di Sanaa. Dovrebbe essere la premessa per incamminarsi finalmente sulla via della pace. Per agevolare questo percorso sotto la guida dell’Onu, il presidente Mansour Hadi, in esilio a Riyadh e tutt’altro che popolare tra la maggioranza degli yemeniti, ha trasferito i suoi poteri a un nuovo consiglio di presidenza composto da sette membri e guidato da Rashad al Alimi, ex ministro dei governi guidati da Saleh, il quale ha promesso di lavorare a un accordo di pace “affrontando questa sfida in tutto lo Yemen, senza discriminazioni e senza eccezioni”. Forse sono solo parole. Ma per il momento non c’è altro. E i primi a non fidarsi troppo di questa tregua sembrano essere gli Stati Uniti, tanto da aver deciso di allestire, all’inizio di aprile, una task force navale con unità della Quinta Flotta per pattugliare contro eventuali attacchi Houthi il Mar Rosso e lo stretto di Bab el Mandeb, dove transita una delle vie di traffico più importanti del mondo.

Undici anni di conflitto armato e non se ne vede la fine. È questa la drammatica situazione in Siria. Anche qui la radice è nelle primavere arabe, da cui è scaturito un vasto movimento popolare che chiedeva il rovesciamento del regime di Bashir Assad ma è stato represso nel sangue, scatenando una rivolta sfociata in una guerra civile che è diventata subito una guerra per procura tra varie potenze straniere. E dando esca, insieme alla questione irachena, all’esplosione dell’Isis. Un disastro che ha creato la più grande emergenza profughi nel mondo: su una popolazione di 21 milioni di abitanti, si calcolano 13,5 milioni di persone costrette ad abbandonare la propria casa come sfollati e 5,6 milioni di rifugiati oltre confine. Ancora più drammatico il conto dei morti: almeno 500 mila, in continua crescita. Senza considerare tutto il resto, come si legge nei rapporti dell’Onu: crollo totale dell’economia (prima una delle più fiorenti del Medio Oriente), alla fame circa il 60 per cento della popolazione, tra cui in particolare oltre 550 mila bambini cronicamente malnutriti, la metà in modo grave. Ed è cambiata persino la “geografia” del paese. La parte centrale e meridionale, fino al confine con il Libano, Israele, la Giordania e l’Iraq è in mano alle forze governative, fiancheggiate da milizie sciite libanesi, irachene e afghane, da pasdaran iraniani e da militari o contractor russi. Una vasta area a nord est è sotto il controllo delle forze democratiche siriane anti Assad, guidate dal Pkk curdo. Diverse ampie fasce al confine con la Turchia sono direttamente o indirettamente sotto l’influenza di Ankara, che ne ha fatto una specie di zona cuscinetto. Basi militari americane e russe sono disseminate in diversi punti del territorio.

Ora, a undici anni di distanza, la minaccia dell’Isis è stata ridotta ma non è affatto scomparsa, come testimonia la serie di attentati e attacchi nella zona “governativa”. D’altra parte, invece, Assad, l’obiettivo della rivolta del 2011, è rimasto saldamente al potere, grazie soprattutto al sostegno militare e politico della Russia di Putin, il cui ruolo internazionale svolto nel corso degli ultimi venti anni deve essere attentamente analizzato per comprendere adeguatamente la strategia russa nell'invasione e conflitto ucraino in corso. Anzi, Assad ha riacquistato “credibilità”: dopo 12 anni di esclusione, nel marzo del 2022 ha potuto di nuovo partecipare al vertice della Lega Araba che si è tenuto ad Algeri. A farlo uscire dall’isolamento sono state soprattutto le pressioni degli Emirati e dell’Arabia. Va da sé che per il dittatore di Damasco è stata una grande vittoria: di fatto, con questo invito ad Algeri, i suoi oppositori sia interni che internazionali hanno dovuto riconoscere lo status quo che si è creato e la sua permanenza al potere. Esattamente l’opposto di quanto è accaduto ai curdi i quali, dopo essere stati pressoché gli unici a combattere sul terreno contro l’Isis con le loro milizie, sono stati praticamente abbandonati a se stessi, lasciando per l’ennesima volta irrisolta la questione del Kurdistan, che si trascina dolorosamente dalla fine della prima guerra mondiale e che vede coinvolte anche la Turchia, l’Iran e l’Iraq. Nel frattempo sul futuro della Siria continuano a pesare le sanzioni europee in vigore dal 2011 e venti di guerra soffiano soprattutto nella fascia settentrionale, alimentando tra l’altro l’ormai endemico flusso di profughi. Un flusso che miete sempre più vittime appena al di fuori dei muri alzati dalla Fortezza Europa nell’Egeo e lungo la linea di confine dell’Evros tra la Turchia e la Grecia, ma anche nel Mediterraneo centrale, sulla rotta tra la Libia e l’Italia.

L’ultimo grande massacro, in Mali, è della fine di marzo 2021. Il ministero della difesa ha riferito di “203 terroristi uccisi” e 51 arrestati in un’azione militare che si è protratta dal 23 al 31, partendo da Moura, una città di circa 10 mila abitanti nel centro del paese. Un rapporto di Human Rights Watch, basato su decine di testimonianze e pubblicato nei giorni successivi, riferisce invece che oltre 300 civili inermi, anche se alcuni sospettati di essere fiancheggiatori dei miliziani islamici, sono stati prelevati e uccisi a freddo, a piccoli gruppi. Quasi tutte le vittime sono Fulani (o Peuhl), l’etnia di pastori seminomadi indicati come simpatizzanti dei gruppi fondamentalisti. La stessa scelta di intervenire in questa zona non appare casuale: a controllare Moura sarebbero esponenti di Aqim, una delle componenti più agguerrite di Al Qaeda. Un controllo diretto e costante, tanto da imporre tasse regolari, gestire le scuole, amministrare la giustizia attraverso corti islamiche che si ispirano alla Sharia. L’eccidio è attribuito alle truppe di Bamako e ai loro nuovi alleati, i soldati russi del gruppo Wagner, l’organizzazione militare costituita essenzialmente da mercenari ma strettamente legata al governo di Mosca. Centinaia di vite spezzate che alimentano e aggravano l’interminabile spirale di violenza in cui il paese è precipitato da dieci anni, con una guerra formalmente non riconosciuta ma che è fatta di continui attentati, attacchi, scontri armati, sequestri, esecuzioni extragiudiziali, torture.

Tutto è iniziato con la rivolta esplosa nel febbraio 2012 – la quarta dal 1960, anno dell’indipendenza dalla Francia – per chiedere una forte autonomia delle regioni sahariane settentrionali, l’Azawad, popolate in grande maggioranza da tuareg e berberi. Tempo poche settimane e la guida della ribellione (nata in particolare nella diaspora, sulla scia delle primavere arabe) è stata assunta da formazioni jihadiste aderenti ad Al Qaeda e all’Isis. Il governo del presidente Amadou Toumani Touré ne è stato travolto: lo ha destituito lo stesso esercito maliano, accusandolo di incapacità nella condotta della guerra contro i ribelli, arrivati a conquistare e a proclamare il distacco dal Mali di tutto il nord, quasi fino alla linea chiave di Mopti. Un anno dopo, nel 2013, la Francia ha deciso un intervento militare diretto nella sua ex colonia, con l’obiettivo dichiarato di fermare l’avanzata della minaccia jihadista nel Sahel, fino al Ciad, al Niger e al Burkina Faso. Accanto all’esercito maliano si è così formata una vasta forza militare straniera: agli oltre 5 mila soldati di reparti scelti inviati da Parigi (gruppo Berkhane) si sono affiancati centinaia di altri militari messi a disposizione da vari paesi europei sotto l’egida dell’operazione Takuba e ben 18 mila caschi blu Onu della missione Minusma.

Questa grande mobilitazione non ha fermato l’azione crescente di Al Qaeda o dell’Isis. Né hanno avuto successo, al di là di impegni formali, le ripetute proposte di tregua formulate in una serie di incontri ad Algeri. Si è sviluppato piuttosto uno stato di guerriglia permanente, capace di colpire ovunque, mentre le truppe francesi sono state sempre di più percepite dalla popolazione come il braccio armato di Parigi per il controllo dei suoi interessi nella regione. Un giudizio che ha finito per estendersi agli altri contingenti europei, considerati una forza di occupazione più che di protezione e pacificazione. Ne hanno tratto vantaggio le formazioni fondamentaliste e per di più si è sviluppato un sanguinoso conflitto interno tra gruppi etnici: in particolare uno scontro crescente tra i Fulani e i Dogon, incentrato sulle antiche rivalità per la gestione dei pascoli e delle terre coltivabili ma incancrenito da motivazioni “politiche”, con l’accusa ai Fulani di simpatizzare per i miliziani jihadisti e con l’attribuzione reciproca di stragi, sanguinosi attacchi e saccheggi contro interi villaggi, uccisioni, violenze.
Il risultato è drammatico: oltre 2 milioni di sfollati, non meno di 15 mila morti (inclusi 260 caschi blu dell’Onu), la creazione da parte dell’Isis dello Stato islamico del Grande Sahel nella vasta area subsahariana a cavallo tra il Mali, il Ciad, il Niger e il Burkina Faso. In questo caos sono maturati altri due colpi di stato. Il primo nell’estate del 2020, quando l’esercito ha costretto a dimettersi il presidente Ibrahim Boubacar Keita (accusato di aver distrutto l’economia e di non aver saputo risolvere i problemi di sicurezza, nonostante la massiccia presenza di truppe straniere), sostituendolo con un governo provvisorio misto di militari e civili in previsione di nuove elezioni. Il secondo nella primavera del 2021: il presidente Bah N’Daw e il primo ministro Moctar Ouane sono stati arrestati e la guida del paese la ha assunta il vicepresidente Assimi Goita, instaurando una giunta militare e rinviando le elezioni. Uno dei primi atti è stato lo sganciamento dalla Francia, obbligata a evacuare dal Mali le sue truppe. Il ritiro, con il trasferimento dei reparti in Niger, si è concluso nel dicembre 2021. E’ subito seguito quello degli altri contingenti europei, mentre sono arrivati i russi del gruppo Wagner. Nel frattempo, nell’arco dell’intero 2021, la minaccia terroristica ha segnato una ulteriore crescita di attacchi e attentati, in una escalation di violenza e di morte a cui nessuna delle forze in campo può dirsi estranea. Come dimostra il massacro di Moura.

Tutto questo solleva una serie di perché. C’è da chiedersi come mai guerre atroci e lunghissime come quelle nel Tigrai, nello Yemen, in Siria, in Mali, non abbiano ascolto nella politica italiana ed europea. Come mai non trovino spazio nei media. Come mai non sconvolgano la sensibilità della gente. Lo stesso vale, del resto, per altre crisi estreme che provocano migliaia di morti e schiere enormi di profughi. In Afghanistan, ad esempio, dove la fuga precipitosa degli eserciti occidentali nello scorso agosto ha posto fine a un conflitto durato vent’anni, ma dove non è certo finita la terribile emergenza umanitaria creata proprio dalla guerra, mentre il regime dei talebani perseguita e costringe a lasciare il paese, se e quando ci riescono, proprio i tanti che hanno creduto nello costruzione di una democrazia salvo essere stati abbandonati dagli Stati che hanno alimentato questo sogno. Oppure in Somalia, un paese imploso da oltre trent’anni, sconvolto da una bufera infinita nella quale siccità, fame, carestia, epidemie si aggiungono al disastro provocato da una sanguinosa guerra civile e da un terrorismo forte e radicato come quello di Al Shabaab, che colpisce quando e dove vuole, mettendo a segno una media di oltre mille attacchi e attentati l’anno. O, ancora, in Nigeria, dove il terrorismo fondamentalista di Boko Aram, combinato con l’azione di bande di predoni e un vortice crescente di conflitti etnici, ha provocato, secondo la sezione affari umanitari dell’Onu, oltre 30 mila morti e più di tre milioni di rifugiati.

Ecco, tutto questo è come dimenticato. Oscurato. Eppure, a ricordarcelo, arrivano ogni giorno, alle porte dell’Italia e dell’Europa, migliaia di profughi in cerca di aiuto. Testimoni disperati degli eccidi, del mondo di morte e sofferenza, a cui sono sfuggiti. Ma forse il punto è proprio qui. Forse l’Italia e l’Europa questi disperati non vogliono vederli.

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