COP27, oltre ogni prevedibile flop

Giornalista professionista dal 2005, si occupa di diritti umani, economia predatoria in Africa e lotta alla povertà. Ha lavorato nelle agenzie di stampa, da Agi, a Reuters ad Adnkronos.
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17 novembre 2022

Pare proprio che il vertice COP27 di Sharm El-Sheik abbia raggiunto il punto più basso tra tutti i summit sul clima mai organizzati finora. Partito col piede sbagliato sin dalla conferma del luogo (all’Egitto spettava la presidenza, quest’anno, in base alla rotazione consueta, ma in Egitto accadono cose raccapriccianti!), è poi proseguito senza piedi. Ossia, perdendo di vista lo scopo: un’emergenza climatica che ci porterà a scomparire come terra abitata da esseri umani nel giro di 50 anni. Ma soffermiamoci anzitutto sulla prima questione che ha (giustamente) deviato l’attenzione degli attivisti durante le prime giornate di vertice.

«Non possiamo salvare il pianeta e contemporaneamente tenere in prigione per reati politici Alaa Abdel Fattah e i suoi compagni – ha scritto Peter Husky su France Inter- In questo c’è una contraddizione fatale che solo la realpolitik dei governi impedisce di denunciare. A questo punto, però, è difficile credere al resto».

E infatti è stato il vertice della irrealtà. E della bassissima credibilità dei leader. Al Jazeera e molti altri hanno naturalmente parlato di Sanaa Seif, sorella dell’attivista in catene che ha iniziato lo sciopero della fame. «Sono qui per fare tutto il possibile per accendere un faro sul caso di mio fratello e salvarlo», diceva Sanaa mentre i capi di Stato e di governo si pavoneggiavano nelle sale a porte chiuse disquisendo di compensazioni e mitigazioni.

Una considerazione analoga è arrivata dall’attivista-giornalista americana, Naomi Klein, che sul Guardian poco prima che iniziasse il vertice ha scritto: «non si sa se la parte di mondo che sta per arrivare al summit stia pensando a lui (Alaa Abdel Fattah ancora in carcere, ndr.) o agli oltre 60mila prigionieri politici rinchiusi in Egitto, dove diverse forme di tortura sono praticate come in una “catena di montaggio”. Né è chiaro se qualcuno pensi agli attivisti egiziani impegnati per i diritti umani e il clima, che insieme a importanti giornalisti e accademici hanno subìto abusi, sono stati spiati, non possono viaggiare».

Entrando poi nel merito delle decisioni del vertice ufficiale le cose si fanno addirittura grottesche. Per salvare il pianeta o anche solo iniziare a pensare di invertire il trend, dicono ormai tutti gli scienziati, bisogna ridurre drasticamente le emissioni nocive di C02. Tagliarle con l’accetta, andando persino oltre gli impegni di Parigi. Lo sanno soprattutto i più giovani, i ragazzini attivisti che lo ripetono in ogni forma. Non c’è più tempo: «Now or never», adesso o mai più. Eppure i leader mondiali pensano di avere un’infinità di tempo davanti, poiché agiscono poco e male. Oppure pensano semplicemente di passare la patata bollente al loro malcapitato successore.

Per cui, ci si chiede legittimamente: i nostri governi (a partire da quelli dei Paesi in via di sviluppo) vogliono davvero salvarlo il pianeta? Diversi giornali del Sud del mondo, come l’indiano Outlook India o China Dialogue, parlano di «adattamento al cambiamento climatico» e riferiscono la posizione dei loro governi che chiedono alla Cop27 di puntare più sull’adattamento che non sulla “mitigazione”.

Che significa? Che i più poveri (gli africani), gli ex poveri (Cina e India) e i quasi industrializzati (gli asiatici) non ci stanno a ridimensionare il proprio sviluppo. E chiedono misure di adattamento, più che accettare per se stessi il taglio drastico alle emissioni. Ma soprattutto chiedono ai ricchi, fondi e impegni economici per lo sviluppo delle rinnovabili e la copertura dei danni. Eccola la parola chiave di questo ennesimo vertice flop: danni.

Più che centrale è stata nel dibattito pubblico (e in quello a porte chiuse) la questione «del loss and damage, letteralmente “perdite e danni”, cioè i risarcimenti per i Paesi più colpiti dal cambiamento climatico, che paradossalmente sono anche quelli che inquinano meno», come scrive il magazine Wired.

«Manca l’accordo sulla definizione, e sono molte le riserve da parte dell'Occidente. Si teme, in sostanza, che cedere terreno possa aprire la strada a richieste di risarcimento da migliaia di miliardi di dollari», da parte dei Pvs, Africa in primis. Gli obiettivi ambiziosi di ogni summit vengono sempre annacquati progressivamente fino a perdersi del tutto. Devono fare i conti con la politica e con la diplomazia. Ma stavolta gli obiettivi ambiziosi non sono stati neanche presentati. O meglio, si sono diluiti da sé. «L'aumento di 2 punti dal 55% al 57% dell'impegno a ridurre le emissioni di Co2 è assai lontano da quel 65% che è la giusta quota su cui l'Ue dovrebbe impegnarsi per limitare globalmente la temperatura a 1,5°C», ha detto Chiara Martinelli di Climate Action Now Europe.

E limitare la temperatura ad 1,5°C è comunque troppo poco. Non basterà a scongiurare la fine.
A Parigi nel 2015, i Paesi Parti concordarono (se ne tirarono fuori Usa e Cina) di mantenere l’aumento medio della temperatura mondiale ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali, e di puntare a limitare l’aumento a 1,5 C. Obiettivo mancato.

I giovani attivisti lo scorso anno chiesero che i programmi e le leggi adottati da ciascuno Stato fossero «allineati con la richiesta dell’IPCC (il panel delle Nazioni Unite sul clima, ndr.), per limitare il riscaldamento sotto la soglia dell’1,5 °C».

Quest’anno neanche ci provano a ribadirlo: i leader mondiali rincorrono obiettivi obsoleti e restano comunque al di sotto di quegli stessi obiettivi troppo bassi che loro stessi si erano dati.

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