Intervista a Michela Pensavalli, psicoterapeuta e autrice del libro “La difficile adolescenza”

PhD in sociologia, presidente della coop. In Migrazione e di Tempi Moderni a.p.s.. Si occupa di studi e ricerche sui servizi sociali, sulle migrazioni e sulla criminalità organizzata.
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02 gennaio 2023

"La difficile adolescenza" è un libro molto bello che indaga una sfera particolare della vita di una persona. Quali esigenze ha avvertito, anche in qualità di psicoterapeuta, che l'hanno spinta a scrivere questo libro e quali differenze pensa ci siano rispetto all'adolescenza delle generazioni passate?

Parlare di adolescenti è un dovere, soprattutto in un momento storico come quello odierno, in cui tutti assistiamo alla sottrazione di elementi costitutivi del futuro: la pandemia ha fratturato quello che è il delicato intreccio tra espressione del “mondo interno” e legami con gli altri, in una continuità di esperienza che è fondamentale.
Il passaggio di crescita verso l’adultità si è manifestato ancor più arduo in un tempo di restrizione e di paura del contagio legato alla vicinanza fisica. La sofferenza che già è espressione di questa fase della vita si è ancor più complessivizzata. Supportare e comprendere gli adolescenti significa predisporre la nostra mente all’accoglienza ospitale ed empatica di un disagio che viene espresso attraverso parole, azioni, segni sul corpo.

La crisi adolescenziale è una rivoluzione che coinvolge l’essere umano in ogni sua dimensione, con trasformazioni che investono l’assetto mentale, fisico ed emotivo della persona. È come un ciclone che si innesca a livello individuale e si ripercuote a livello sociale, per cui ciò che dovremmo offrire ai nostri ragazzi durante questi anni di mutamenti, scoperte e assestamenti, è un faro: un porto sicuro, da cui poter partire all’esplorazione del mondo interiore e di quello esteriore, e in cui potersi rifugiare nei momenti di maggior pericolo. Un luogo in cui esistono appigli solidi e stabili ai quali potersi appigliare nelle fasi peggiori di confusione e smarrimento.

La sfida è non farsi seguire quanto piuttosto raggiungere i ragazzi lì dove sono: dare voce e significato al loro disagio, supportarli nell’evoluzione tortuosa transitante verso l’adultità responsabile, facendo molta attenzione ai conflitti, ai segnali, ai messaggi e ai ritardi che realizzano, con la speranza che infondo a questo tunnel buio che è stato il periodo pandemico, si possa finalmente recuperare la frattura tra il mondo interno dei ragazzi ed il mondo esterno degli adulti. Cornice essenziale è la comunità che convochi al senso di partecipazione, che li accolga, li coinvolga per aiutarli a crescere e formarsi adulti.

Nel libro fa riferimento ad un rapporto assai interessante anche dal punto di vista sociologico, ossia quella tra “narcisismo digitale” e pandemia, peraltro quest'ultima in ripresa. Cosa intende, allora, per “narcisismo digitale” e che relazione si è manifestata con la pandemia?

Oggi assistiamo ad un intreccio ineludibile tra precariato, rivoluzione tecnologica e modernità liquida che ci ha proiettati in un tempo in cui la realtà, le certezze, le relazioni vivono una sorta di agonia, perdono i loro confini, a favore di un senso di dinamismo e di mutevolezza, la cui contropartita però è un’instabilità dilagante, una fluidità esistenziale.  

Quello che resta a galla in questo inarrestabile moto ondoso, è stato definito “narcisismo digitale”, cioè il bisogno di esibirsi dell’uomo ipermoderno per dimostrare di esistere nel rutilante universo globale, alla ricerca di sensazioni forti, immediate, che, come dei pizzicotti, ci richiamino alla realtà e ci dimostrino di essere presenti (e svegli). 

Il mondo reale e virtuale si intrecciano e gli incontri con “non persone” avvengono spesso in un “non-luogo”, tutto questo ancora di più a causa di un periodo nel quale, la connessione virtuale è stata l’unica modalità di poter essere in relazione, a scuola, per lavorare e per socializzare. La pandemia ha esaltato questo utilizzo delle nuove tecnologie e indietro non si può più tornare.

D’altra parte, siamo nell’era dei “like”: un’impronta edonistica e superficiale coinvolge ogni sfera dell’esistenza umana, che ruota intorno a ciò che “ci piace” e si tiene alla larga da quanto “non piace”. La gradevolezza è il requisito predominante: dai “pollici in su” ricevuti, iniziano a dipendere tanto il senso di appagamento personale, tanto le scelte commerciali e pubblicitarie. Sapete che esiste un mercato di compravendita di follower e di like? Serve per acquisire potere online, anche economico.    

Di contro, i ruoli adulti e stabili (soprattutto in ambito sentimentale), ciò che richiede energie a lungo termine, scelte impegnative, sembrano essere qualcosa di poco desiderabile e poco facile da gestire, per cui oggetto di evitamento, di “dislike”: ciò che non produce appagamento immediato, che non solletica positivamente, non è attraente. Insomma, ci teniamo un po’ tutti a mostrarci patinati, perfetti, apprezzabili e con un seguito che parli delle nostre capacità.

Un altro interessante concetto a cui lei fa riferimento riguarda la confusione, quale tratto tipico della società contemporanea, tra desideri e bisogni. Ce ne vuole sinteticamente parlare?

Il primo oggetto di fraintendimento sono proprio i desideri, confusi coi bisogni. La mira si è spostata più a galla, e ciò che viene perseguito è la risposta ai bisogni, alle “voglie” (cioè i bisogni transitori di rapida soddisfazione: i desideri fast). È una ricerca incessante di emozioni, che fa da contraltare all’esperienza della noia, della mancanza di speranza e di una prospettiva concreta per il futuro. La Rete ci sta abituando ad un continuo bombardamento sensoriale, con contenuti sgargianti, rumorosi, affascinanti, dai quali siamo attratti, e nei confronti dei quali sviluppiamo abituazione e assuefazione, che confondono, ci distraggono, ma raramente ci soddisfano fino in fondo.

Lei distingue anche tra “senso di colpa” e “senso di vergogna”. Quali sono le differenze tra queste due specifiche condizioni?

Si tratta di due sentimenti autocoscienti differenti: nel senso di colpa attribuiamo a noi stessi gli esiti di una scelta che potrebbe avere comportato sofferenza, per noi stessi o per altri, ci sentiamo riprovevoli ai nostri occhi o a quelli di chi ci osserva.

Nel senso di vergogna proviamo invece un sentimento di inadeguatezza, sottoposti ad un forte giudizio negativo che ha un’influenza fortissima sulle personalità immature e in formazione, e può gettare nella disperazione. Talvolta il modo di compiacere gli altri si fonde con la ricerca di compiacenza estrema, alla ricerca del consenso sociale a tutti i costi. Troppo spesso questa sensibilità al giudizio esterno approda a disturbi alimentari, comportamenti compulsivi relativi a diete restrittive ed esercizio fisico senza supervisione, alla selezione di cibi pericolosi, a fobie verso determinati ingredienti, talvolta addirittura dell’acqua minerale! Il malessere può raggiungere livelli tali da preferire di smettere di vivere.

Lei è stata citata recentemente nel libro “Libere per tutte” edito dalla fondazione Feltrinelli in qualità di esperta di patologie derivanti, tra le altre, dalle dipendenze compulsive come quelle dal gioco d'azzardo. Quali sono le caratteristiche di questa patologia? In quali condizioni si trova, ad esempio una donna, vittima di tale dipendenza e come uscirne?

Si tratta di un libro molto bello che narra di liberazioni. Nella condotta del gioco d’azzardo compulsivo, la persona intacca pesantemente le aree della sua vita: affettiva, familiare, lavorativa, fino al punto da nascondere ai propri occhi necessità e reali esigenze di vita, sottomesso al dominio di questo comportamento fagocitante.
In un primo momento la persona pensa di potersi liberare dal comportamento adesivo e di farcela con le proprie forze a venire fuori dall’isolamento e dalla prostrazione mentale e concreta, economica alla quale la dipendenza porta, frequentemente però si accorge di avere bisogno di un percorso specialistico di aiuto. La comunità nei casi più seri è la soluzione, per riacquistare i gradi di libertà dell’esistenza che tengono presente del cammino di autocoscienza e di consapevolezza di cui la persona si deve fare protagonista.

Siamo in una fase storica assai delicata: viviamo gli effetti di una guerra in corso sull'uscio di casa nostra, quella in Ucraina, ci sono gli effetti drammatici dei cambiamenti climatici e di una crisi occupazionale ed economica che è alle porte d'Europa, la pandemia sta tornando dalla Cina, si potrebbe dire, con “furore”. Tutto questo eleva i livelli di ansia e di paura di tante persone. Cosa si sente di raccomandare al governo, a una coppia di genitori con figli adolescenti, a un singolo adolescente che si sta affacciando alla vita adulta dove incontrerà sfide enormi che lo investono sebbene lui o lei non le abbia scelte?

La prima parola che mi viene in mente è l’entusiasmo! Quello che abbiamo perso noi adulti e che dobbiamo necessariamente recuperare per aprire un varco di incontro con i nostri figli. La nostra missione è far loro riscoprire le emozioni, positive e negative!

Inoltre, i ragazzi vanno sopportati: entriamo nei loro atteggiamenti frustrati e frustranti con pazienza, con tolleranza, cercando di farli sentire non tanto giudicati, quanto compresi. Ricordando che l’adolescenza è una crisi lunga e profonda, ma passeggera, e che per superarla hanno bisogno di tutta la vostra stabilità e della vostra comprensione. 

Bisogna intuirli. Il loro modo di vedere il mondo e di abitarlo va capito, cercate sempre di intercettare i loro bisogni, di intuire i loro vissuti. Non dare per scontato quello che sentono, perché vi stupireste di quanto sia lontano dalla vostra immaginazione. Il vostro sguardo attento e tollerante sarà un balsamo per il loro disagio, anche se non riuscirete a capirvi fino in fondo. In ogni caso è un movimento di avvicinamento, un incontro nello scontro. 

Convocarli. Alimentate in loro la speranza, le passioni, i sogni, convocandoli alla vita e sfidateli con un’utopia: la visione di un mondo che ancora non c’è, ma che potrebbe/dovrebbe esserci, e ci sarà se loro daranno il proprio contributo a questa causa. 

Coinvolgerli. Seguite un’antropologia dialogica comunitaria: inseriteli nella comunità, nella Polis, per contrastare l’isolamento e diffondere i valori umanitari. 

Insegnate loro e spronateli a partecipare alle questioni pubbliche e sociali, a favorire la solidarietà, l’integrazione sociale dei diversi e degli emarginati, a sentirsi parte attiva di un tutto.

Predisponete centri aggreganti che incrementino il senso di appartenenza e di coesione, dove apprendano a sperimentare l’unità anche nella diversità. 

Rispettarli . “Volo us sis”, diceva Sant’Agostino: “voglio che tu sia ciò che sei”. Aiutate i ragazzi ad individuare e sviluppare la loro personalità, la loro originalità, valorizzando le loro risorse, supportando i loro sogni, e rispettando i loro limiti e i loro difetti. L’esperienza di essere accettati per come si è, è una delle più potenti iniezioni d’amore possibili. 

E sottolineate la loro individualità, evitando le generalizzazioni svalutanti (“voi ragazzi...”), per salvarli dalla spirale di omologazione in cui la cultura moderna vorrebbe imbrigliarli.

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