Le guerre, la politica e gli affari fatti con le fonti fossili

PhD in sociologia, presidente della coop. In Migrazione e di Tempi Moderni a.p.s.. Si occupa di studi e ricerche sui servizi sociali, sulle migrazioni e sulla criminalità organizzata.
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01 novembre 2023

A cinquanta anni esatti dalla crisi energetica provocata dall’attacco a sorpresa a Israele operato dagli eserciti dell’Egitto e del Libano, passato alla storia come “guerra del Kippur”, uno degli effetti che produrrà il nuovo conflitto o massacro scatenato da Hamas nei giorni scorsi sarà un ulteriore e perdurante aumento del prezzo dei combustibili fossili. In base al noto meccanismo economico di togliere ai poveri per donare ai ricchi, da questo effetto c’è da attendersi anche altre tre conseguenze altrettanto sicure: 1) il peggioramento della nostra traballante economia, dato che ancora oggi le fonti fossili coprono circa l’80% del nostro fabbisogno energetico, con ulteriore incremento del già insostenibile debito pubblico; 2) la possibilità per le compagnie energetiche mondiali e per i governi dei paesi produttori di realizzare guadagni senza precedenti, dato che a parità di investimenti e di capacità estrattiva i profitti aumenteranno in modo esponenziale; 3) il rinvio a data da destinarsi dell’inevitabile transizione ecologica della nostra società.

Sta tutto già scritto nella “storia energetica” recente di questo Paese. L’esperienza ci ha insegnato che già quello dell’ottobre 1973 fu un conflitto inaspettato che impedì il riconoscimento dello Stato palestinese da parte israeliana. La guerra del Kippur diede l’occasione ai paesi aderenti al cartello dell’OPEC (erano i 14 maggiori produttori di greggio a livello mondiale, esclusi gli USA e l’Unione Sovietica), quasi tutti arabi, di imporre l’embargo delle forniture di petrolio alle nazioni ritenute maggiormente vicine allo Stato di Israele. Della lista faceva parte anche l’Italia e l’allora governo guidato dal democristiano Mariano Rumor, si vide costretto ad adottare drastiche misure economiche che comportarono la chiusura di molte fabbriche, inflazione galoppante e disoccupazione diffusa. Sono rimaste nella memoria collettiva le cosiddette “domenica a piedi” dovute al divieto di circolazione delle auto. Un’interessante conseguenza di questo stop alla circolazione a motore fu che, per la prima volta, le strade italiane furono invase dai ciclisti e dai mezzi di locomozione alternativi alle auto. Pochi però sanno (o almeno ricordano) che quell’embargo non fu deciso solo per ragioni politiche, motivate dal mancato riconoscimento della Palestina come Stato indipendente. Due anni prima era stato pubblicato un dettagliato rapporto del National Petroleum Council (NPC) degli USA, formato dai dirigenti delle maggiori compagnie petrolifere degli Stati Uniti, che diede un’ottima imbeccata ai paesi dell’OPEC. In vista del progressivo esaurimento dei giacimenti allora esistenti e dei maggiori costi per individuarne e utilizzarne di nuovi, quel rapporto prevedeva che il prezzo del petrolio statunitense sarebbe dovuto crescere esponenzialmente se si volevano mantenere costanti i tassi di resa finanziaria degli investimenti effettuati dalle medesime compagnie. I ministri dei paesi dell’OPEC, che di certo non erano degli sprovveduti, presero per buone le previsioni dei colleghi americani ed essendo ormai i maggiori fornitori della risorsa su scala globale, adottarono i necessari provvedimenti per tenersi al passo. Le entrate per questi paesi aumentarono considerevolmente ma di questo fiume di denaro poco o niente è arrivato alla popolazione. Oltre all’Arabia Saudita, oggi guidata da Mohammed Bin Salman, ottimi affari con le compagnie petrolifere internazionali furono fatti dall’Iraq di Saddam Hussein e dall’Iran dell’ayatollah Khomeyni.

Ora come allora, non solo nel nuovo conflitto israelo-palestinese, la situazione complessiva su scala globale non è molto diversa nei suoi elementi essenziali, che sono quasi esclusivamente finanziari, con la politica usata per scopi propagandistici. Per essere scatenata, ogni guerra ha sempre bisogno di un nemico da abbattere e per questo servono quantità enormi di armi da utilizzare e vite umane da mandare al macello, anche se poi, a conti fatti, nessuno va a vedere chi realmente ha perso (anche la vita) e chi ha guadagnato con quel conflitto. È successo neanche con l’aggressione militare della Russia all’Ucraina.

Quando Vladimir Putin, la notte del 24 febbraio 2022, annunciò l’inizio dell’invasione, i governi degli Stati Uniti, dell’Unione Europea e delle altre economie del G7, alleati inclusi, risposero con una serie di pacchetti fatti di ritorsioni economiche, finanziarie e diplomatiche che, secondo le promesse, avrebbero messo in ginocchio l’intero paese invasore entro qualche mese. Ma in base ai recenti dati a consuntivo del Fondo Monetario Internazionale, nel 2022 il PIL reale della Russia è diminuito appena del 2,1% e nei primi trimestri del corrente anno i flussi di cassa hanno recuperato e superato i livelli pre-conflitto. La spiegazione di questa apparente incongruità è abbastanza semplice: c’è stata una banale partita di giro nella fornitura di risorse energetiche fossili agli stessi paesi promotori dell’embargo, Italia inclusa. Essendo il prezzo del petrolio inscindibilmente collegato a quello del gas, ed essendo il fornitore della prima identico a quella della seconda fonte fossile, è bastato chiudere i rubinetti dell’una per poi aprire di più quelli dell’altra. Anzi, a dirla tutta, neanche il gas è diminuito ai livelli indicati ufficialmente, perché in realtà buona parte del flusso che in precedenza proveniva dalla Siberia è stato “sostituito” (per modo di dire perché le reti dei metanodotti russi sono tutte interconnesse) dalle regioni del Mar Caspio della medesima federazione russa e che è stato immesso nelle reti internazionali grazie ai gasdotti che attraversano la Turchia del “caro amico” Erdogan.

Infine c’è da tener presente che una buona parte dell’importazione sostitutiva del gas della Siberia oggi proviene soprattutto dall’Algeria, il cui governo, insieme a quello dell’Iran, è nettamente schierato a favore di Hamas nel nuovo conflitto israelo-palestinese scoppiato lo scorso 7 ottobre. Un po’ come saltare dalla padella alla brace e viceversa.

Aldilà delle devastanti implicazioni umanitarie per le popolazioni coinvolte nei conflitti quindi, la faccia feroce della Meloni contro Putin e Hamas in questo gioco del gatto con il topo, appare del tutto insignificante. Soprattutto se si sceglie, come il suo governo ha fatto, di restare funzionalmente legato a una politica dissipatoria delle risorse che sforna oltre 100 milioni di barili di greggio al giorno per tutti i 365 giorni dell’anno. In sostanza, con le fonti fossili si sta rubando il futuro ai giovani per continuare a finanziare il riarmo dei regimi e i governi che hanno in mano tali risorse. La lezione della crisi energetica di 50 anni fa, da questo punto di vista, non è servita a niente. Intanto nel mondo si bombardano mercati con l’aviazione, compiono raid terroristici in feste e rave, torturano civili, rapiscono giovani e anziani, sparano missili ad alta precisione contro palazzi abitati da persone che hanno come unica colpa quella di stare dalla parte sbagliata del confine per volontà del più forte e del più cinico.

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