Goma la città perduta, i tutsi e il cerchio (dell'M23) che si chiude

Giornalista professionista dal 2005, si occupa di diritti umani, economia predatoria in Africa e lotta alla povertà. Ha lavorato nelle agenzie di stampa, da Agi, a Reuters ad Adnkronos.
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04 febbraio 2025

Goma è una città perduta. Caduta domenica scorsa nelle mani del movimento ‘ribelle’ M23 e dell’esercito ruandese che lo sostiene da mesi, sia in uomini (almeno 3mila) che in armi.

Paul Kagame, presidente del Ruanda, nega, ma la presenza massiccia del suo esercito è oramai conclamata.

«Dalle due del mattino siamo sotto una grandinata di proiettili, non sappiamo come uscire dalle nostre case», scriveva martedì scorso il salesiano padre Aimée da Goma.

«Sono già passati più di due anni dall’apertura dei campi sfollati che circondano la città e si dice che gli operatori umanitari non siano sempre in grado di soddisfare tutti i bisogni degli sfollati nei numerosi campi».

Scrive Pascal Bauma, missionario salesiano di Goma.

«L’attuale instabilità politica fa sì che la città non abbia sufficienti mezzi di approvvigionamento - prosegue - soprattutto perché la maggior parte della popolazione non ha accesso al cibo».

«Resistete! l’heure est grave», grida Felix Tshisekedi nel suo appello (disperato) alla nazione.

Sta di fatto che Goma, capoluogo del Nord Kivu ad Est della Repubblica Democratica del Congo, non è una città qualsiasi: è la città da mesi (se non da anni) minacciata e controllata a vista dalle milizie armate.

Prima contesa, poi accerchiata e braccata; ora dilaniata e occupata.

Il cerchio dei miliziani tutsi (l’M23) filo-ruandesi si è stretto attorno a Goma come un cappio al collo nell’arco non di una settimana ma di oltre un anno.

Nel giro di tre anni, inoltre, l’M23 ha avuto modo di occupare passo dopo passo buona parte del Nord Kivu: cinque province su sei.

Walikale era in bilico fino a due mesi fa, e il villaggio di Pinga restava una delle ultime frontiere.

La gente terrorizzata è fuggita dove ha potuto: l’ospedale generale di Pinga si è trasformato in un campo per sfollati.

La più grande struttura sanitaria di Walikale ha offerto riparo a 3mila persone tra donne, bambini e anziani.

E se oggi il gruppo armato è penetrato fin dentro la città capoluogo lo deve anche all’inerzia internazionale e all’incapacità dell’esercito congolese.

«Mancano cibo e acqua, gli sfollati non sanno più dove scappare, la situazione è catastrofica», avverte in queste ore Monica Corna dell’ong Vis.

Coloro che possono attraversano il confine ed entrano in Ruanda: tra questi ci sono Marco Rigoldi, missionario laico nel Centro Casa Goma, e sua moglie Arielle Maweja, incinta di otto mesi.

Al centro della guerra regionale più annunciata di sempre c’è una delle 26 province dell’est del Congo.

Il Nord Kivu, in bilico tra Uganda e Ruanda, forziere senza fondo di avorio, carbone, rame, oro, diamanti, legname, coltan e cobalto.

«L’M23 (prima con altri nomi) è in questa provincia almeno da dieci anni: sono ruandesi di razza nilotica, tutsi, che vogliono prendersi il Kivu perché nel Kivu ci sono tante miniere, questa è la sintesi», ci racconta padre Gianni Magnaguagno,saveriano ad Uvira, a 150 km da Goma.

Ma da solo l’M23, senza il sostegno militare di Paul Kagame e il silenzio occidentale, non ce l’avrebbe mai fatta.

«Il Ruanda è stato sempre esaltato dalle diplomazie internazionali e ha goduto di libertà d’azione senza limiti nell’Est del Congo», denuncia Luca Jourdan, docente di antropologia politica e ricercatore sul campo dal Nord Kivu, autore del bellissimo libro “generazione kalashnikov”.

«Sia gli Stati Uniti che la Francia e il Belgio stanno condannando in queste ore l’M23 e il Ruanda per il sostegno dato al movimento armato, ma non mi risulta che la condanna si traduca in sanzioni commerciali nei confronti di Kigali», prosegue Jourdan. Tutt’altro.

La società britannica Power Resources International, ad esempio ha in ballo la realizzazione di una raffineria di coltan nel parco industriale di Kigali.

«L’Unione europea da parte sua – ci spiega Jourdan - ha siglato a febbraio del 2024 con il Ruanda un memorandum of understanding per favorire lo sviluppo “sostenibile” (ma parlare di sostenibilità in un contesto di guerra non ha alcun senso!) delle materie prime “critiche”».

Si tratta di un’intesa per “rafforzare” il ruolo del Ruanda nella lavorazione e raffinazione di oro e tantalio, che però non possiede miniere.

E dunque attinge alle miniere di oro e tantalio del Congo.

Secondo i nostri missionari che vivono in zone limitrofe del Congo e altrove in Africa, Paul Kagame è «decisamente un alleato dell’occidente» e ha saputo «capitalizzare» molto bene la tragedia del genocidio del 1994.

Di fronte al «senso di colpa occidentale, essendo lui un Tutsi».

Ancora Jourdan, spiega: «l’M23 ha sempre detto di portare avanti una sua ribellione perché nell’est del Congo ci sarebbero gli eredi dei genocidari del Ruanda e la persecuzione dei Tutsi va avanti.

Ma a mio avviso questi temi sono in parte dei pretesti: l’M23 vuole mantenere la propria egemonia su questo territorio, ricchissimo di minerali di ogni sorta».

Articolo già pubblicato su Peace and War.

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