Migranti. Primi no all’Europa sulla politica dei “gendarmi” a pagamento e dei grandi hub in Africa

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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12 maggio 2021

L’Algeria e la Tunisia non ci stanno: non intendono fare da “gendarme” per impedire che i migranti arrivino in Europa, bloccandoli in mezzo al Mediterraneo o in Africa. Ovvero, nessuna caccia in mare alle barche cariche di disperati, nessun contributo ai respingimenti di massa mascherati da salvataggi, nessun hub o megacentro di accoglienza sul proprio territorio, nessun contratto “soldi in cambio di uomini”. Insomma, uno stop alla politica di esternalizzazione delle frontiere che l’Unione Europea ha adottato negli ultimi vent’anni, cercando di scaricare tutto sull’Africa. E questa presa di posizione – chiara e risoluta nel governo di Algeri come in quello di Tunisi – arriva proprio mentre l’Europa preme per rinnovare due accordi chiave per fermare i migranti prima ancora che arrivino a bussare alle sue porte, riproponendo compensazioni per miliardi di euro: quello del 2016 con la Turchia, voluto soprattutto dalla Germania, e quello, ancora peggiore, con la Libia, riproposto in questi giorni dal premier Draghi per l’Italia.

La prima a muoversi è stata l’Algeria con un’intervista rilasciata il 31 marzo dal ministro degli esteri Sabri Boukadoum al quotidiano El Pais, una delle testate leader in Spagna, scelta sicuramente non a caso, visto che sono algerini oltre il 25 per cento dei quasi 9 mila migranti arrivati nel territorio iberico nei primi mesi di quest’anno e dei 41 mila sbarcati nel 2020. Boukadoum non ha usato mezzi termini, prendendo subito di petto il problema: “In Spagna, in Italia, in Francia, in Grecia ci si lamenta per le migrazioni di massa, ma siamo noi a riceverle, queste migrazioni, prima ancora che raggiungano l’Europa. Tutta l’Europa cerca ‘protezione’ da questo fenomeno Ma allora noi dobbiamo agire come poliziotti per l’Europa? Noi non intendiamo far uscire i migranti che arrivano da noi, come fa qualcuno. Noi lavoriamo e vogliamo continuare a lavorare con la Spagna, la Francia, la Germania, il Portogallo…. Ma anche l’Algeria sta subendo pesantemente questa realtà: l’anno scorso, a un certo punto, si sono registrati più di mille arrivi al giorno”. Ciò significa, in buona sostanza, che l’Algeria ha un problema duplice: sono sempre più numerosi gli algerini che cercano con ogni mezzo di lasciare il paese per costruirsi altrove un futuro, ma sono tantissimi anche i migranti subsahariani di varie nazionalità che entrano nel paese dalla frontiera meridionale con il Niger e il Mali, molti “in transito” e molti anche per restare.

Secondo Boukadoum, allora, bisogna partire da questa situazione, senza fingere (o, peggio, pretendere di fatto) che la questione sia solo e tutta africana: “Per trovare soluzioni durature occorre una stretta cooperazione tra l’Unione Europea e i paesi dell’Africa. Perché questo fenomeno epocale va affrontato nei luoghi d’origine. La creazione di posti di lavoro, ad esempio, sicuramente aiuterà la gente a restare. Sarà più efficace e costerà di meno. Costerà di meno che mettere navi a pattugliare il Mediterraneo. O, ancora, ad esempio, il caso di Minusma (la missione militare di peacekeeping iniziata nel 2013 in Mali: ndr) che costa miliardi. Interventi di questo genere non servono. Occorre invece costruire magari scuole e centri sanitari. Costa di meno e crea le condizioni per restare…”.

In sostanza – sembra di capire – una strategia di pacificazione e collaborazione, smontando quella visione “securitaria” dei crescenti flussi migratori che ha portato a militarizzare sempre di più le frontiere esterne dell’Europa. A un mese di distanza dall’intervista di Boukadium, sulla stessa linea si è schierata la Tunisia, proprio in occasione della conferenza euro-africana sulle migrazioni convocata in Portogallo. Ne ha parlato lo stesso premier, Hichem Mechichi, rifiutando senza mezzi termini la proposta di creare nel paese un grande centro per migranti diretti in Europa, uno degli smisurati hub che periodicamente vengono proposti dalla Ue in mezza Africa: basti pensare al caso del Niger. “La Tunisia – ha detto Mechichi, come riferisce Tunis Afrique Presse – ha impostato e iniziato ad attuare una strategia globale per limitare il fenomeno della migrazione irregolare. Sono stati presi in considerazione punti nodali come la sicurezza, la formazione professionale, lo sviluppo della solidarietà nei paesi del Mediterraneo. La migrazione, insomma, non deve essere considerata come una minaccia permanente, ma piuttosto come un fattore di sviluppo economico, sociale e culturale. Nonché un fattore di avvicinamento tra i popoli. E’ in questo senso che vanno cercate delle soluzioni”.

Sembrano far eco a queste parole alcune considerazioni espresse al quotidiano Domani da Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa eletto al Parlamento Europeo, a proposito dell’ultima ondata di sbarchi in Italia di migranti provenienti dalla Libia e, appunto, dalla Tunisia. La prima constatazione è che le barriere innalzate con gli accordi sottoscritti con la Libia nel 2017, dall’allora ministro degli interni Marco Minniti, poi confermate da Matteo Salvini quando era alla guida del Viminale e ora fatte proprie anche dall’attuale premier Mario Draghi, si sono rivelate “un fallimento evidente”. “Fino a quando ci saranno guerre, violenze, persecuzioni, fame, la gente partirà sempre – ha dichiarato Bartolo, riferendosi non solo alla Libia – E’ una situazione disperata di cui tutti gli stati devono farsi carico”. Quanto in particolare alla Tunisia – il paese da cui, da qualche anno, arrivano più migranti in Italia, con una media che oscilla fra il 13 e il 15 per cento del totale – è evidente come a spingere migliaia e migliaia di persone verso quella che appare ormai una vera “fuga per la vita”, sono la delusione seguita alle grandi speranze nate con la “rivoluzione dei gelsomini”, una crisi economica sempre più profonda, la disoccupazione (specie giovanile e nel sud) schizzata a livelli record, un malessere e un malcontento diffusi a cui il governo dà sempre più spesso risposte autoritarie anziché soluzioni. “Sono dati – conclude Bartolo – che dimostrano come abbiamo sbagliato tutto. E’ necessaria una politica di sostegno per l’Africa del Nord, insieme alla definizione di corridoi umanitari e rotte regolari d’ingresso. Alzare di continuo l’asticella favorisce solo i trafficanti di esseri umani”.

Si tratta, in definitiva, di cambiare totalmente rotta rispetto alla linea seguita dall’Europa negli ultimi vent’anni, dal Processo di Rabat (2006) in poi, passando attraverso tutta una serie di accordi bilaterali tra singoli stati Ue e vari governi nordafricani, il Processo di Khartoum (2014), i trattati di Malta (2015), l’accordo con la Turchia (2016), il memorandum Italia-Libia (2017), rinnovato senza cambiarne neanche una virgola nel 2020. Un muro dopo l’altro, secondo una “politica migratoria” che, paradossalmente, non mette al centro i migranti, le persone e i loro problemi, ma tutti i sistemi possibili di blocco per fare in modo che i migranti l’Europa non arrivino nemmeno a sfiorarla.

Quanto sia fallimentare questa scelta è più che evidente. Le situazioni di crisi si moltiplicano. E si moltiplica, di conseguenza, il numero di migranti e di profughi. Sono di questi mesi, ad esempio, la devastante guerra in Tigrai, il riacutizzarsi senza fine del conflitto nello Yemen, l’intero Sahel sempre più fuori controllo, i disastri ambientali e la carestia che hanno investito gran parte dell’Africa subsahariana da anni. E si è appena agli inizi dei contraccolpi che inesorabilmente comporterà la pandemia di coronavirus nei paesi più poveri ed emarginati. Ma anziché concepire una politica diversa del Nord nei confronti del Sud del mondo, per affrontare e cercare di risolvere queste crisi (partendo anche da una nuova politica sull’immigrazione), la scelta resta quella di costruire dei muri, senza curarsi minimamente della sorte di chi ne resta “fuori”. Ed ecco allora che si cercano finanziamenti comunitari da girare al governo libico e a quello turco perché controllino e blocchino le partenze, a qualsiasi costo. Ecco rispuntare la politica dei grandi hub per migranti, da aprire da qualche parte in Africa. Ecco la ricerca affannosa di gendarmi per sorvegliare i confini della Fortezza Europa esternalizzati e spostati quanto più a sud possibile. Solo che – come potrebbero indicare i casi della Tunisia e dell’Algeria, la quale peraltro, unica tra i 28 governi africani coinvolti dalla Ue, non ha mai aderito al Processo di Rabat, se non come “osservatore” – qualcuno pare cominci a non voler stare più al gioco. E’ certamente presto e ancora troppo poco per trarne conclusioni e indicazioni di carattere più generale. Anzi, c’è persino chi sospetta che si tratti di manovre “per alzare il prezzo”. Ma non è detto che non sia invece il primo passo di una ribellione diffusa alle logiche finora dominanti. E, se è così, l’Europa rischia di capirlo solo quando sarà troppo tardi.

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