Lavoro povero e salario minimo. Note a margine del Convegno promosso da Magistratura democratica e dall’Associazione Comma 2

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07 maggio 2022

La Costituzione Italiana rappresenta tutt’oggi, davvero, un’opera di straordinario livello, non solo sul piano più strettamente politico e giuridico, ma anche su quello più latamente sociale: per non dimenticarne l’eccezionale qualità lessicale.

Per trovare la risposta ad uno dei più gravi problemi, tra i tanti, che assilla il mondo del lavoro, quello del cd. “lavoro povero”, che non consente a chi pure ha un’occupazione di sopravvivere, venendo relegato in una condizione di assoluto disagio sociale, basterebbe leggere il testo dell’art.36, ed impegnarsi a cercarne fino in fondo lo spirito.

Si legge nell’articolo citato: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”.
La prima osservazione da fare è che molti degli aggettivi che da ultimo vengono abitualmente associati al lavoro sono tutti fuori dal raggio di copertura costituzionale: il lavoro gratuito, per iniziare, non è lavoro, al massimo rappresenta attività di volontariato, ma nulla, nemmeno lo scambio con una qualche attività formativa potrà rendere l’impegno del lavoratore non meritevole di un riconoscimento economico.

Non è costituzionale il lavoro cd. “nero” perché la mancata regolarizzazione sul piano contributivo e assicurativo danneggia il lavoratore e lede la sua dignità: uno Stato che intende rispettare i principi dettati dalla propria Costituzione (e non dimentichiamo mai che l’art. 1 della Costituzione dichiara che “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”) deve combatterlo senza alcun timore o indugio.

Non è costituzionale, oltre certi limiti, nemmeno il lavoro precario, anche se ammantato sotto la visuale accattivante della flessibilità, dipinta come capace di garantire una maggiore libertà esistenziale, perché il lavoro deve assicurare una esistenza libera e dignitosa ed il lavoro “usa e getta” viceversa rende la persona ricattabile e non la emancipa dalla condizione di bisogno.

Non è costituzionale il lavoro povero, perché proprio ai sensi dell’art.36 solo una retribuzione adeguata, in grado di restituire dignità alla persona del lavoratore, rientra nel grande progetto costituzionale di promozione dell’eguaglianza.

Veniamo allora al tema del convegno che si è tenuto presso la Corte di Cassazione il 25 marzo 2022, che collega direttamente il problema, quello del lavoro povero, ad una possibile soluzione, quella della previsione di meccanismi legislativi in grado di fissare soglie minime del salario, valide per l’intera platea dei lavoratori subordinati e dei collaboratori con unica committenza.

Le associazioni promotrici del convegno, Magistratura democratica e Comma 2, composte rispettivamente di magistrati e di avvocati giuslavoristi, hanno condiviso la considerazione dell’importanza, in questo momento in particolare, di concentrarsi sull’esigenza di trovare meccanismi di tutela dei livelli minimi del reddito da lavoro, proprio in nome della garanzia costituzionale dell’art. 36, a cui hanno fatto riferimento tutti coloro che sono intervenuti.

In Italia, il tema è particolarmente drammatico, molto più che in altri Paesi europei, se è vero che dai dati OCSE del 2021 risulta che l’Italia è l’unico Paese dell’UE in cui negli ultimi anni, anzi decenni, il salario medio dei lavoratori è diminuito anziché aumentare: tra il 1990 e il 2020 si è registrato un calo del salario medio annuale del 2,9%. In Germania e Francia, per avere un termine di paragone, i salari medi negli stessi anni hanno avuto un aumento rispettivamente del 33,7 e del 31,1% (tenuto conto che solo nel periodo Covid, 2019/2020 il calo ha sfiorato il 6%, in termini comunque superiori a quelli degli altri Paesi europei). Il tema del salario si collega strettamente, ce l’hanno ricordato tutti gli studiosi che sono intervenuti, con quello della progressiva liberalizzazione del mercato del lavoro, che via via ha superato ogni barriera in grado di garantire stabilità nel posto, e dunque sicurezza del reddito. La grande maggioranza dei nuovi contratti di lavoro è a tempo determinato (la percentuale si aggira intorno al 70%)1; notevole l’entità del ricorso ai tirocini, o al lavoro in somministrazione. E’ senz’altro vero, come si potrà ascoltare direttamente dal tenore degli interventi, che per riaffermare la dignità del lavoro, occorre porre in essere una strategia “multilivello”, con regole più stringenti capaci di riequilibrare l’attuale situazione di svantaggio: ma sembra significativo il dato per cui l’Italia è uno dei cinque Paesi europei (insieme con Svezia, Finlandia, Danimarca, Austria) che sin qui non ha introdotto un limite legale, al di sotto del quale non è consentito alle parti contrattuali fissare il minimo della retribuzione.

In Italia, infatti, sin dalla metà degli anni ’50, artefice la magistratura del lavoro, si è stabilito che per garantire il rispetto del principio dell’art. 36 Cost. è sufficiente fare richiamo alle tabelle salariali previste dalla contrattazione collettiva: e questo anche se le parti non sono iscritte alle rispettive associazioni sindacali. Questo meccanismo, per vero, non sembra possa più riuscire ad evitare la progressiva, netta erosione del potere d’acquisto dei salari: stante anche la mancata regolamentazione della rappresentanza sindacale, oramai non è agevole individuare il Contratto collettivo di riferimento (sono circa 900 i CCNL depositati presso l’CNEL, e se alta è la percentuale dei cd. “contratti pirata”, il dumping salariale si riscontra anche nell’area coperta dalla contrattazione confederale). Da qui, la presentazione in Parlamento di alcune proposte di legge in tema di salario minimo, una delle quali particolarmente conosciuta, porta il nome dell’ex Ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, e ha l’indubbio merito di affrontare direttamente il problema, proponendo di far salva la fonte contrattuale, affiancando ad essa quale limite la soglia minima della retribuzione oraria di 9 euro.

Si tratta di una proposta che alle nostre Associazioni pare particolarmente interessante, per concretezza e chiarezza, premesse naturali di una auspicata efficacia. Non solo la contrattazione collettiva resta la fonte privilegiata a cui riconoscere il compito di stabilire salari equi e sufficienti: anzi, essa potrebbe trovare ragioni di rafforzamento dalla previsione di un minimo legale orario, dal momento che appunto, questo deve costituire il livello da cui partire, per le prestazioni di minore qualità. Sarebbe più che lecito, anzi doveroso, che tutto ciò che si eleva dai livelli più bassi deve trovare un migliore riconoscimento economico. Questo, tra l’altro, è successo nei Paesi, ad es. in Germania, dove pure la garanzia legale è stata introdotta solo dopo notevoli esitazioni e timori, rivelatisi a posteriori del tutto infondati.

Studiosi, operatori del diritto, politici e sindacalisti si sono confrontati su questo tema partendo da dati concreti, capaci di restituire la realtà odierna del mercato del lavoro in Italia. Chiara Brusini, giornalista del Fatto Quotidiano, e Lisa Dorigatti, del dipartimento scienze sociali e politiche dell’Università di Milano, hanno svolto una analisi del “lavoro povero”, oggi drammaticamente diffuso non solo negli ambiti dell’attività manuale, ma anche presso le professioni intellettuali. Emanuele Menegatti, docente di Diritto del Lavoro al Dipartimento di Sociologia e Diritto dell'Economia presso UniBo, ha svolto un accattivante confronto con realtà di altri Paesi per compararle alla situazione italiana, dimostrando soprattutto il dinamismo degli attori sociali, in grado di affrontare sfide nuove pur di raggiungere obbiettivi migliorativi. Infine, a Michele Raitano, Professore associato di Politica economica presso La Sapienza di Roma, è stata chiesta la riflessione più prettamente economica per ragionare in termini metodologici sulla possibile quantificazione del salario minimo. In attesa di pubblicare i testi dei rispettivi interventi su Questione Giustizia, offriamo ai lettori la possibilità di seguire la registrazione integrale della discussione.

Nella seconda parte del convegno, la tavola rotonda moderata, con competenza e autorevolezza, da Gad Lerner, ha visto confrontarsi con i rappresentanti delle associazioni promotrici (Giovanni Alleva per Comma 2 e Giuseppe Bronzini per Magistratura Democratica) il mondo politico, impersonato dall’ex Ministra del Lavoro Nunzia Catalfo (Giuseppe Provenzano, vice segretario del Partito Democratico, che pure aveva confermato la sua presenza, a ridosso dei lavori ha fatto venir meno la sua disponibilità) e i sindacati confederali CGIL, CISL e UIL sostanzialmente allineati su un comune atteggiamento critico nei confronti del tema proposto, pur restando oltremodo generiche (e non così lontane dal mantenimento dello status quo) le proposte alternative in grado di invertire la tendenza costante che ha progressivamente determinato il drammatico punto d’arrivo.

Le conclusioni di Rita Sanlorenzo e Alberto Piccinini per le rispettive associazioni hanno confermato l’interesse verso le proposte volte ad introdurre forme di garanzia del salario minimo, nella convinzione che non possa eludersi la necessità di tutelare la condizione dei lavoratori meno garantiti, pur nella consapevolezza che non ci sono soluzioni miracolistiche, ma che in un contesto di adeguate tutele per la contrattazione collettiva, una legge sul salario minimo oltre a rafforzare la posizione del lavoratore servirebbe anche a riportare all’attenzione della politica un tema decisivo, che è quello del valore, non solo economico, che al lavoro si vuole riconoscere nel nostro Paese.

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