Laboratorio criminale è un volume pubblicato nel 2023 dall’Editore People (Busto Arsizio), frutto della collaborazione tra Roberto Lessio e Marco Omizzolo, quest’ultimo sociologo dell’istituto Eurispes e docente di Sociopolitologia delle migrazioni alla Sapienza. Ha goduto di recensioni positive su testate qualificate (Micromega), che si sono anche opportunamente soffermate sui rischi che il lavoro di inchiesta e denuncia ha comportato (e comporta) per gli autori. Mi pare però che tale approccio, certo giustificato, inchiodi Laboratorio criminale a un ruolo di libro-inchiesta (o libro verità), che per i motivi che proverò a spiegare va alquanto stretto al lavoro svolto.
A mio avviso, Laboratorio criminale richiede di essere letto su due distinti livelli; ciò non già perché gli autori facciano ricorso a tecniche di percorso parallelo di scrittura o simili espedienti, meno che mai a una divisione di compiti tra loro. Il saggio è infatti unitario e coerente, dall’introduzione alle conclusioni. Piuttosto, esso apre a più riprese a considerazioni di ordine diverso, che attengono al livello teorico-politico di analisi generale, contribuendo, a mio avviso, ad arricchire la comprensione da parte nostra dell’orrida realtà in cui siamo calati, anche a costo di introdurre nuovi momenti di contraddizione nella difficile ricostruzione di un quadro d’insieme. Su tali “strappi” mi soffermerò nella seconda parte.
Parlavo di coerenza interna: gli autori si propongono di “ricostruire la genesi e l’evoluzione di una delle organizzazioni mafiose più sottovalutate” (p. 5), quella del clan Casamonica-Di Silvio. Tale ricostruzione si propone di indagare la c.d. ‘quinta mafia’, cioè “un network per sua natura liquido, costantemente ibrido e mobile ... in grado di vincere appalti, eleggere propri rappresentanti nelle istituzioni, disporre di professionisti di primo livello avvocati, medici, notai e commercialisti, acquistare imprese ... senza mai abbandonare e mettere in discussione la propria identità, i propri linguaggi, comportamenti e modus vivendi” (p. 7). A conclusione del saggio, gli autori potranno a buon diritto rivendicare di aver dimostrato come quella descritta non sia una criminalità minore e/o localmente identificata. Al contrario si tratta di un gigantesco laboratorio criminale “dove una nuova e aggiornata organizzazione, inizialmente complementare alle mafie tradizionali, ha raggiunto la propria autonomia funzionale grazie alle sue peculiari modalità e capacità operative” (p. 197). Tra le prime, oltre alla brutalità dei metodi, vanno annoverati il particolare peso dell’aggregazione familiare, e la rete di avanzate relazioni professionali e politiche, una criminalità insomma “che inneggia al fascismo e si considera padrona, intoccabile, invincibile”. Ciò che in questi decenni, secondo Omizzolo e Lessio, è mancato da parte delle istituzioni (ma anche e soprattutto, mi permetto di aggiungere, della riflessione critica legata all’approfondimento militante delle odierne pratiche capitalistiche) è stata una lettura unitaria in grado di collocare in “un quadro univoco e chiaro il complesso di pratiche, interessi e relazioni che fanno di questi criminali un’organizzazione mafiosa spietate e diffusa” (p. 198).
Per questa via il territorio di Latina, il c.d. “laboratorio di governo della destra in Italia” – secondo la non dimenticata definizione dell’ex segretario MSI Gianfranco Fini al momento dello sdoganamento politico berlusconiano di tale partito - si è rivelato “luogo di elaborazione, radicamento e gemmazione di un sistema criminale che ne ha condizionato lo sviluppo” (p. 189). Peraltro, poiché esponenti di primo piano di tali cupe esperienze sarebbero saliti ai vertici istituzionali nazionali con l’ascesa al governo di Fratelli d’Italia, dobbiamo con amarezza convenire che, in certo senso, la previsione di Fini si è davvero inverata.
L’indagine ha un preciso momento di apertura: l’alleanza politico-criminale che emerge con forza inattesa dall’esito delle elezioni del 2014 a Latina, fenomeno giudicato ai tempi folkloristico, comunque di rilievo solo locale, dalla c.d. sinistra di governo. Per fare luce su di esso, gli autori avvertono la necessità di liberarsi di alcuni falsi presupposti, giacché: “nulla di ciò che è locale, in realtà, resta localmente circoscritto” (p.16). Calcio, industria dei rifiuti, la stessa politica di commissariamento realizzata dal governo Berlusconi, sono la base su cui questa “resistibile ascesa” fa le sue prove. La prassi della decretazione emergenziale tesa alla costruzione di una rete di commissari straordinari da parte di quel governo (al netto delle documentate pratiche di ... cene eleganti in cui taluno tra costoro si sarebbe prontamente esibito dopo l’insediamento, giusta l’esempio fornito dal comune mentore e maestro di vita) meriterebbe peraltro di essere oggetto di analisi politico-giuridica, oltre che sociologica, attenta.
Interrogandosi sul perché il fenomeno abbia avuto origine proprio nella provincia laziale, e insieme sul perché non sia rimasto locale, gli autori – attraverso un racconto che si avvale anche di messaggi suggestivi, in particolare quando ci guidano a incontrare il paesaggio dell’acquedotto Felice a Roma negli scorsi decenni, le baraccopoli e attorno i treni che collegano la capitale non solo con il sud ma anche (e soprattutto, ai fini del discorso) con l’Abruzzo e il Molise – ricostruiscono la nascita di un tipo inedito di criminalità, (p. 44), che va alla conquista dei territori attraverso gruppi locali “i cui membri hanno la medesima origine e cultura e sono legati da solidi vincoli di parentela, coi quali i clan delle mafie tradizionali (la ndrangheta più di ogni altra) hanno creato un meccanismo a doppio valore d’uso, simbiotico ed affaristico”. E un meccanismo che non solo ha fatto di Roma e del Lazio un laboratorio criminale, ma la ha trasformata nel “primo di una serie di laboratori criminali che ormai spuntano come funghi alla periferia delle metropoli” (p. 53).
Siamo così condotti per mano alla corretta conclusione che proprio le “politiche di segregazione nei confronti di comunità discriminate sono un’occasione per costruire sistemi di potere” e speculazione, in un’ottica pienamente capitalista, ma dotata nel contempo di caratteristiche specifiche: una forma di capitalismo all’ennesima potenza che getta le basi, mantiene e si nutre di una dimensione “concentrazionaria e criminale”. Qui il richiamo alle carte processuali, al di là delle posizioni di singoli imputati nei processi romani, apre uno squarcio che da solo, per così dire, vale il prezzo del biglietto. Ciò avviene quando un imputato intercettato dichiara a un altro distinto rappresentante del “mondo di mezzo” (le finte cooperative che collaborano con le istituzioni deviate): “Noi quest’anno abbiamo chiuso con quaranta milioni ... ma tutti i soldi utili li abbiamo fatto sugli zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero” (p. 78).
Sull’emergenza criminalità Rom gli autori osservano poi, richiamando una loro visita all’infernale campo “Al Karama”, nel Comune di Latina (cap. 7). come la marginalizzazione/esclusione abbia al cuore, sempre, una scelta politica. In altre parole: se passa il pregiudizio che un popolo sia inferiore a un altro, sarà la stessa organizzazione sociale, attraverso le conseguenti politiche razziste, a creare le condizioni di inveramento del pregiudizio. La stratificazione socio-culturale, figlia del razzismo, porta alla subordinazione degli inferiorizzati (p. 88). Il cap. 7 è tra i più drammatici del libro, non solo perché descrive una situazione disumana, ma perché partendo da questa il discorso si sposta su un evento impensato, inatteso e foriero di futuri disastri per la capitale e l’Italia: la conquista politico-amministrativa del Comune di Roma, grazie al blitz mediatico successivo a un drammatico fatto di cronaca, da parte di Alemanno. Omizzolo e Lessio richiamano giustamente alla nostra memoria una data precisa, il 20 aprile 2008: quel giorno l’intervento di Maria Giovanna Maglie su Il Giornale, dal titolo “Maledetti buonisti”, inaugura la squallida campagna. La giunta Alemanno, come noto, sarà legata a illeciti gravi in serie, tra i quali spicca proprio la gestione dell’emergenza Rom subito costruita, con decretazione d’urgenza, dal governo Berlusconi. Non ho tempo di soffermarmi, ma non sottovaluterei quanto riportato alle pp. 92-93, circa la decretazione d’urgenza in relazione al nuovo campo nomadi di Latina. La conseguenza fu la mancata erogazione dei soldi stanziati (ma in parte già spesi), lasciando la situazione sul campo eguale a quella che era: neppure i pulmini per portare a scuola figli degli abitanti del campo furono in seguito trovati.
Non mi soffermo, anche se sono godibili (ove si superi il disgusto) i siparietti dedicati alla crescita anche mediatica degli esponenti del clan Casamonica, attraverso l’accorta regia dell’ineffabile Vespa.
Costruita l’intelaiatura di fondo, la seconda metà del lavoro tende a concentrarsi maggiormente sui passaggi concreti di costruzione del laboratorio criminale nell’Italia di questi ultimi anni. Ciò, giova ripetere, avviene tramite lo sviluppo di reti di origine familiare, che sviluppano un’attività puntuale e ... oculata di reati per sé minori (furto in appartamento, raggiri di persone anziane, commercio abusivo di materiali ferrosi) strumentali all’ingresso in attività criminali maggiori, traffico di stupefacenti e usura in particolare (p. 106). Il fenomeno, e in questo sta la sua drammaticità, si sviluppa in un territorio devastato, che il business dei rifiuti aggrava di giorno in giorno, e l’immanenza dei campi (mi riferisco insieme alla gestione dei campi rom ed a quella dei migranti) rende agghiacciante.
La criminalità che qui viene descritta è talmente interna al gruppo sociale da cui emerge che la residenza dei suoi protagonisti afferisce rigorosamente al campo rom e al suo degrado, anche quando si tratti di soggetti che muovono sotterraneamente capitali enormi e hanno la proprietà occulta di rilevanti costruzioni di pregio, sempre prive di permessi edilizi di sorta: una evasione
fiscale enorme, unita a proventi direttamente illeciti reinvestiti in attività di per sé lecite. Va da sé che una simile ascesa di un clan originariamente periferico, e la sua gemmazione in vari punti del territorio nazionale, non avrebbero potuto avvenire senza una fitta rete di complicità sociale: il cap. 9 fornisce esempi utili in materia.
Mi paiono inoltre rilevanti le riflessioni sull’emergere di una sorta di welfare abitativo parallelo (cap. 9) alternativo messo in opera da questa malavita, e della forza che i clan ne traggono nelle periferie degradate del territorio metropolitano. In tal modo, mi si perdoni l’amara conclusione, l’antica parola d’ordine “la casa si prende, l’affitto non si paga” della nostra gioventù si trasforma in una cupa parodia di se stessa.
La descrizione puntuale del crescere della quinta mafia impone, in itinere, di inserire nella geografia delle nuove attività criminali gli stabilimenti balneari. Puntuale è la denuncia del vero e proprio suicidio – non vi sono altri termini cui ricorrere – commesso a suo tempo dalle amministrazioni del litorale laziale, tutte di centro-sinistra; mosse dalla vanità di mostrare (a chi?) un volto favorevole all’attività privata, rinunciarono al compito istituzionale di governare la cosa pubblica. Dalla loro rinuncia a incassare i canoni pur irrisori delle concessioni, inizia un processo che porterà alla sparizione delle spiagge libere lungo tutto il litorale. Ovviamente i clan criminali (con i propri sponsor politici) entreranno a far man bassa di questo lucrosissimo terreno di caccia, praticamente regalato dai poteri pubblici. In controluce rispetto a questa drammatica sequenza di eventi vengono richiamate le vicende tragicomiche delle giunte capitoline, fino all’episodio (che di comico non ha più nulla) dell’agguato dei renziani alla giunta Marino per ... questioni di scontrini fiscali (p. 156)!
Opportunamente, il volume dedica spazio ai funerali, descritti nei particolari, dei personaggi chiave della c.d. quinta mafia. Se viene sottolineato il carattere politico-mediatico, provocatorio di certi eventi (con trasposizioni nella TV di Stato), esiste anche la consapevolezza da parte degli autori che dietro questi funerali, preparati sempre con una elaborazione complessa, dietro la loro sontuosità, vi è la volontà di sottolineare l’importanza del morto nella vita di chi rimane. È quanto dire che siamo in presenza di una “rappresentazione scenica dal valore altamente simbolico”. Insomma: non si può limitarsi a vedere in queste cerimonie mere esibizioni di potere verso l’esterno, quanto riconoscere piuttosto in esse “l’esecuzione di una ritualità dove devono essere rispettati tutti gli aspetti altamente simbolici della loro cultura”. Colpisce la spiegazione dell’insistita partecipazione dei bambini a tali cerimonie, partecipazione che viene ritenuta utile alla “formazione della memoria del
defunto”. Insomma il funerale è cerimonia centrale nella cultura rom, in cui nulla deve essere lasciato al caso (pp. 167-168). Il riconoscimento di questa unicità culturale, che caratterizza questa rispetto alle altre mafie, conferma, ove ce ne fosse bisogno, il tratto scientifico del testo, che non può assolutamente essere ridotto a mero documento di accusa.
Di grande interesse è anche il capitolo sui parallelismi europei nella prassi della criminalità rom, e sulla evidenza di un ritorno a fenomeni di schiavitù, fondata sulla forza e la minaccia. Siamo giunti al momento di dare seguito ad alcune considerazioni sparse sugli spunti che il testo fornisce, spunti talmente ricchi da indurmi a parlare di opportunità di duplice chiave di lettura. Alcuni di questi spunti sono per così dire occasionali, ma non di meno degni di essere raccolti. Per fare un esempio, vi è una nota proprio in coda alle conclusioni (p. 200) in cui con piglio sicuro viene individuato /e descritto il crescere di importanza della malavita indiana, la sua candidatura, per così dire, a divenire una nuova mafia. Quasi nessuno ne parla, così come sono pochi gli studi sui gruppi di pressione indiani negli USA, negli affari (anche nel malaffare) come in politica. Eppure è la loro entrata in scena che ha reso possibile a suo tempo l’elezione di Trump (altro che suprematismo bianco!): in prospettiva, quando del singolare tycoon non si parlerà più, è presumibile che proprio l’emersione negli USA di un nuovo soggetto politico-istituzionale con solide basi nel mondo criminale risulterà il dato caratterizzante di quelle strane elezioni.
Altro profilo in certa misura estemporaneo, ma importante agli occhi del giurista del patrimonio, è quello relativo all’archeologia industriale.
L’introduzione di tale nozione costituì a suo tempo una conquista, resa possibile dalla riforma, insieme formale e di contenuto, nell’applicazione della
Convenzione UNESCO del 1972; tale riforma consentì negli anni ’90 al sistema delle Liste di trarsi dalla situazione di stasi in cui era caduto[1]. Tuttavia, a livello globale come locale, si sono posti ben presto problemi dovuti al, diciamo così, disinvolto utilizzo politico, svoltosi alle diverse latitudini, dell’espressione archeologia industriale. Senza forzare il confronto tra i vari ordini di grandezza presentati da tali problemi[2], mi limito a constatare la delicatezza estrema di ogni discorso legato all’archeologia industriale. Il caso preso in esame da Lessio e Omizzolo ne è conferma: una serie di istituzioni, non solo locali, si è spinta a definire, diciamo con colpevole superficialità (sic!), protezione di un patrimonio di archeologia industriale il mantenimento di una grande fabbrica dismessa da decenni che fa da base all’ascesa del clan criminale, e costituisce in realtà un “iperluogo sociale di formazione e industrializzazione della devianza”, espressione di un capitalismo predatorio.
Venendo all’approfondimento della questione rom, con cui il libro si apre, sono condivisibili, le considerazioni sulle conseguenze, per queste comunità particolarmente nefaste, del collasso del sistema del c.d. socialismo reale. Per le varie comunità rom ciò ha significato “la fine di molti diritti acquisiti, come la sedentarizzazione, l’inserimento in ambito prevalentemente industriale, un buon livello di scolarizzazione e di partecipazione all’attività politica e sindacale”. Per quanto riguarda l’Italia, gli autori pongono l’accento sulle conseguenze dell’arrivo di molti profughi dalla ex-Jugoslavia, “tuttora privi della cittadinanza italiana” (p. 12). Forse vi è qualcosa di più: è all’opera in Europa occidentale, con la fine della Repubblica socialista federale di Jugoslavia, un diabolico meccanismo moltiplicatore del ritorno dell’apolidia. Si tratta di una apolidia ormai giunta alla terza generazione, strutturata, non più facilmente estirpabile nel disperato nomadismo continentale, senza
via d’uscita, che la anima. E questo il buco nero che inghiottisce di volta in volta i tentativi di normalizzazione della situazione. Tale ritorno dell’apolidia di massa (di appartenenti a minoranze si intende), per quanto non approfondito, richiama a gran voce situazioni proprie dei secondi anni
’30[3].
In sintonia con il richiamo alla Harendt di Noi rifugiati, emerge l’avvenuta comprensione da parte degli autori di Laboratorio criminale – e questo mi pare il dato centrale - di un profilo decisivo: la tendenza a giocare un ruolo crescente nel capitalismo post-liberista di una rete di cupi universi concentrazionari che in nessun modo possono essere considerati elemento periferico di una riformulazione del capitalismo in via di tragico consolidamento.
Qui però si apre una contraddizione, che non posso tacere: mi riferisco all’evocazione nel libro dell’applicazione dell’art. 416bis come strumento atto a combattere la quinta mafia. Certo, io capisco che gli autori non facciano riferimento all’opportunità di un trattamento particolarmente duro, quanto piuttosto al riconoscimento di una soglia di pericolosità adeguata per un fenomeno così a lungo sottovalutato. Ma il 416bis non è astratto indice di soglie di pericolo dei destinatari, o quantomeno non solo questo: è anche un regime che si applica ai corpi, uomini e donne, che vi incorrono. La condanna di detto trattamento deve essere radicale, attenendo esso alla dimensione della tortura (magari sub specie di trattamento inumano, che della tortura è comunque articolazione specifica). Non appaiono lecite posizioni intermedie. Come reagiremmo se, di fronte alla proposta di introdurre il taglio della mano per punire i ladri, si replicasse sostenendo che ... tale punizione va imposta con misura, solo per i furti più gravi, e comunque quando passati in giudicato?Concluderemmo – o almeno così mi auguro - trattarsi di una posizione priva di senso, e soprattutto di diritto alcuno di cittadinanza.
Si tratta di uno scivolo d’ala che in qualche nodo contraddice il valore strategico della tesi che attraversa il libro, al di là della pur encomiabile ricostruzione delle gesta dei Casamonica e affini: quello di costituire ad un tempo una conferma a livello teorico e una esemplare prova sul campo
dello spaventoso dilatarsi della dimensione concentrazionaria nel capitalismo contemporaneo.
Ciò introduce, o forse interseca, due ordini di considerazioni finali, possibili oggetto di filoni di ricerca diversi ma convergenti. Per un verso mi riferisco al richiamo della realtà storica del colonialismo, particolarmente idoneo a definire il mondo in cui il volume si immerge. Riferendosi alla miseria dell’accoglienza nel nostro Paese, basata sulla mancata assunzione di consapevolezza del perché si deve accogliere, Omizzolo e Lessio affermano che ciò facendo “si gettano le basi di un’accoglienza, ancora una volta, concentrazionaria e criminale. Una forma di colonialismo all’ennesima potenza, in sostanza, di cui ... si discute davvero poco”. Vorrei evitare di incatenare l’apprezzamento di un libro a uno schema di riferimenti autoriali miei, che magari non coincidono con quelli degli autori. Però la vicinanza di alcuni passaggi al pensiero di chi torna oggi, più di ogni altro teorico e militante del ventesimo secolo, a parlarci in termini di assoluta contemporaneità, mi impressiona davvero molto. Il riferimento è a Franz Fanon[4].
Per l’altro verso, vorrei riportare in chiusura l’intervento di uno dei maestri del pensiero operaista, che in un recente articolo in morte di Mario Tronti scrive di “messa a nudo dei nuovi poteri che controllano ormai la nostra stessa capacità di percepire, di apprendere, anzi che l’annichiliscono, rinchiudendoci nel loro metaverso. Che creano quell’individualismo massificato che Tronti indicava come il disastro maggiore nel suo ultimo intervento”[5]. Orbene, per quelli tra noi a giudizio dei quali tali poteri ci spingono ormai oltre, drammaticamente oltre, la stessa dimensione dell’individualismo massificato, Laboratorio criminale contribuisce a fornire un apprezzabile terreno d’appoggio.
[1] Mi riferisco alla Revisione nel 1972 delle Linee guida operative all’applicazione della Convenzione, tramite l’inserimento dei cd cultural landscapes (Operational Guidelines for the Implementation of the World Heritage Convention, par. 47), e al documento Strategia globale, pubblicato dal Comitato intergovernativo per la protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale, di lì a poco. Rimando a Zagato L., Pinton S., Giampieretti M., Lezioni di diritto internazionale ed europeo del patrimonio culturale, Cafoscarina, Venezia, 2019.
[2] Gravissimi i problemi legati alla proclamazione qualche anno fa dei paesaggi di archeologia industriale giapponese (secondo ottocento e inizi del XX secolo), nel corso di un’industrializzazione costruita sullo sfruttamento alla morte di centinaia di migliaia di coreani, in pratica schiavi importati. Malgrado la moderazione della richiesta coreana, che non si opponeva alla candidatura in sé ma chiedeva che alla lesione dei diritti umani di questa massa di manodopera servile si facesse cenno nella proclamazione, il Comitato intergovernativo UNESCO si è allineato colpevolmente alla proposta di proclamazione giapponese. Si veda, Zagato L., Sul patrimonio dissonante e/o divisivo, in Dialoghi mediterranei, 55, 1 maggio 2022, e il dibattito che si è aperto su FaroVenezia (www.farovewenezia.it) riguardo alla nozione di patrimonio dissonante.
[3] La intuizione del ritorno della questione apolidia in nuove forme è quanto a mio avviso spiega il ritorno, imprevisto quanto salutare, del volumetto della Harendt Noi rifugiati, autentico gioiello nascosto nella produzione scientifica della studiosa, tenuto tenacemente ai margini del dibattito interno al mainstream politico (sulle due sponde dell’Atlantico, oltre che in Israele). V. Arendt H., Noi rifugiati, Einaudi, Torino, 2022, di cui va letto con attenzione anche il saggio inserito a mo’ di postfazione: Di Cesare D., Hannah Arendt e i diritti dei rifugiati p. 34 ss.
[4] Per una recentissima quanto interessante rilettura centrata su parole chiave del pensiero fanoniano e della sua impetuosa evoluzione (bloccata da una fine tanto prematura), Bernini L. Franz Fanon. Violenza/Colonia/“Razza”/Sesso/Velo, Deriveapprodi, Trento, 2023.
[5] Bologna S., Strappiamo Tronti ai salotti buoni!, in Machina, 18 agosto 2023.