Israele-Palestina: la via per la pace indicata da Framma

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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14 novembre 2023

Angelo Frammartino, Framma, come lo chiamavano tutti a Monterotondo, stava dedicando le sue vacanze ai bambini palestinesi. Lavorava come volontario in un centro culturale nella parte araba di Gerusalemme. Uno di quei ragazzi generosi e pieni di ideali che arrivano da mezzo mondo in Israele-Palestina per dare una mano a costruire un percorso di pace in una realtà segnata da decenni di odio e di guerra. Un pomeriggio aveva scelto di tenerselo tutto per sé: voleva andare a immergersi nell’atmosfera magica della città vecchia, chiusa dentro le sue mura antiche di secoli. Alla porta di Erode, una di quelle che conducono al quartiere arabo, un giovane palestinese affiliato alla Jihad islamica lo ha aggredito alle spalle senza dire una parola, accoltellandolo a morte. Probabilmente lo aveva scambiato per un ragazzo ebreo: un “nemico da uccidere”.

Era il mese di agosto del 2006. La reazione immediata, sia a Gerusalemme che in Italia, fu proprio quella che Framma non avrebbe voluto. Quell’omicidio – dissero in molti – dimostrava come con i palestinesi e gli arabi in genere non sia possibile il dialogo. Che la violenza è insita nell’Islam. Che era ingenuo pensare che a Gerusalemme ci fossero zone non pericolose. Addirittura che Framma, pur non avendo mai commesso violenza ed anzi dedicasse la sua vita alla pace, forse aveva mostrato “un po’ troppa condiscendenza verso la violenza di altri”… E via di seguito, dando esca sempre di più a quella spirale di odio e risentimento, rancore e volontà di vendetta che continua ad allargarsi dal 1948 in Israele-Palestina e che invece Framma voleva fermare.

Pur straziato dal dolore, fu il padre, Michelangelo, un insegnante, a bloccare questa deriva che si stava innescando sulla morte di Framma: “Non ho alcun motivo di rancore – disse – E’ normale che in un popolo, quando è in grave difficoltà, non ci sia razionalità. Mio figlio è vittima dell’ingiustizia del mondo, non di quel povero Cristo che lo ha ucciso…”. Parole nobili, che suonano quanto mai attuali oggi, nell’orrore di quanto sta accadendo. Oggi che la terra di Israele e di Palestina sta vivendo la tragedia forse più sanguinosa di sempre in seguito alla strage orribile scatenata il 7 ottobre da Hamas, per la quale non ha senso invocare nemmeno la più pallida delle giustificazioni e, insieme, per la vendetta che ne è seguita da parte dei “falchi” del governo israeliano, altrettanto insensata e ingiustificabile, con i bombardamenti indiscriminati che da oltre un mese stanno cancellando Gaza. E’, ancora una volta, l’antica spirale di odio e violenza che continua ad ampliarsi, con il sacrificio di oltre 12 mila vite, di cui almeno 4.300 di bambini. Dodicimila tout court. Senza distinzioni di bandiere. Perché è assurdo “dividere” anche i morti: contare ciascuno i propri per “giustificare” magari altre uccisioni. Ecco, le parole del papà di Framma proprio questo volevano significare: che con il rancore non si costruisce nulla. Che se si vuole imboccare la via della pace il rancore bisogna seppellirlo.

In verità sono stati tanti, negli anni, i tentativi di arrivare alla pace, tutti basati sul principio “due popoli, due stati”. Dagli accordi di Oslo – impostati a partire dal 1991 con una serie di colloqui segreti in Norvegia e firmati nel settembre del 1993 daYitzhak Rabin e da Jasser Arafat, che riconobbe per la prima volta il diritto all’esistenza dello Stato di Israele – fino agli incontri di Camp David nel 2000 e di Taba nel 2001, ai negoziati di Ginevra nel 2003 e alla successiva road map proposta, sempre nel 2003, dal cosiddetto “quartetto” (Onu, Unione Europea, Stati Uniti e Russia). In più il progetto promosso dall’Arabia Saudita e fatto proprio dall’Unione Araba nel 2002. Tanti, ma tutti falliti.

I nodi cruciali sono cinque: la questione di Gerusalemme e dei luoghi sacri della Spianata delle Moschee e del Monte del Tempio; il diritto al ritorno dei profughi palestinesi scacciati dalle loro case e dai loro villaggi nel 1948; la gestione delle risorse, a cominciare da un bene vitale come l’acqua; la definizione dei confini; gli insediamenti dei coloni israeliani in Cisgiordania. Nodi sicuramente difficili. E che sono diventati ancora più ardui, quasi incancreniti, nel tempo. Gli insediamenti, ad esempio, anziché fermarsi sono enormemente aumentati e continuano ancora, a macchie di leopardo sempre più ampie. E a Gerusalemme l’autorità e anzi la stessa presenza araba appaiono sempre più a rischio. Ma se non si è trovata una soluzione non dipende solo dalle difficoltà in se stesse. Forse il punto vero è che, in tutti questi anni, ormai più di trenta, le trattative sono state condotte da entrambe le parti continuando sostanzialmente a rinfacciarsi offese e accuse reciproche, più propensi a ricordare i torti subiti piuttosto che a valutare le “ragioni dell’altro”, in modo da trovare insieme una soluzione. Fino a creare una situazione di stallo, uno status quo – percorso di continuo da episodi di violenza e perfino da due guerre nella striscia di Gaza, nel 2008 e nel 2014 – che ha cristallizzato l’occupazione della Cisgiordania iniziata 56 anni fa, dopo la guerra del 1967, avvantaggiando Israele, la parte più forte, e peggiorando invece la posizione dei palestinesi, la parte più debole.

Dall’una e dall’altra parte, insomma, non c’è stato nessuno che abbia avuto il coraggio e la forza di interrompere la “spirale dell’odio”. Il coraggio e la forza d’animo, cioè, di imboccare la via del confronto e della pace anche all’indomani o addirittura in concomitanza degli episodi più sanguinosi e dolorosi. È così che in Israele-Palestina è diventata dominante la logica della guerra come soluzione. Ed è appunto da questa logica, cupa di volontà di vendetta, che nascono anche sia il massacro condotto da Hamas sia l’assedio e la distruzione di Gaza, entrambi crimini orrendi non solo contro le migliaia di vittime ma contro lo stesso valore universale di umanità.

Allora, forse, adesso più che mai bisogna ripartire da qui: fermarsi e riflettere, con animo sgombero, sulle “ragioni dell’altro”, tenendo ben saldi due punti: il diritto di esistere in pace e sicurezza dello Stato di Israele e quello dei palestinesi di arrivare finalmente ad avere un proprio Stato in cui riconoscersi e poter vivere a loro volta in pace e sicurezza. È una terra piccola e martoriata ma – come diceva Martin Buber fin dal 1947 – c’è posto per entrambi i popoli. Purché tacciano finalmente le armi e ci sia qualcuno che rompa la spirale dell’odio.

È certamente molto difficile avanzare una proposta di questo genere in Israele, a Gaza o in Cisgiordania in questo momento, mentre le ferite stanno sanguinando, mentre si piangono e si contano ancora i morti, mentre non si sa nulla della sorte degli oltre 200 ostaggi presi da Hamas per usarli come arma di guerra, mentre vengono colpiti dalle bombe anche ospedali, scuole, convogli di ambulanze e di soccorritori. Di più: potrebbe apparire addirittura provocatorio, mentre di giorno in giorno monta la rabbia. Ma è anche vero che non sono poche le voci che si sono levate per chiedere la pace: subito e nonostante tutto. Ce ne sono anche tra molti familiari delle stesse vittime. Ma, soprattutto, sono sempre più numerose le voci per la pace che si stanno levando in tutto il mondo e in particolare in Europa. Voci che inorridiscono sia quando sentono il premier israeliano Benjamin Netanyahu parlare di “popolo della luce” contrapposto al “popolo delle tenebre”, sia quando certi estremisti palestinesi dicono che “berranno il sangue dei coloni”. Quando cioè avvertono che c’è chi continua ad alimentare l’odio, nonostante le decine di migliaia di morti di oggi e di ieri.

E allora forse si può partire da qui. Dalle tante voci di pace che si stanno levando. E l’obiettivo delle tante manifestazioni per Israele e per la Palestina, grandi e affollate spesso da riempire le strade e le piazze in tutto il mondo, dovrebbe essere unicamente quello di aiutare israeliani e palestinesi a incontrarsi, al più presto, nonostante tutto e finalmente senza alcuna volontà o anche solo tentazione di prevaricazione come troppo spesso è accaduto in passato. A incontrarsi ora proprio perché ora la situazione è così tragica e le divisioni sono così profonde. Ma perché ciò possa accadere occorre che questa volontà di incontrarsi pervada anche le stesse manifestazioni che si stanno svolgendo, unendo tutte le forze sotto la bandiera della pace per condurre insieme, in modo pacifico, ma con estrema determinazione, una lotta che spinga la comunità internazionale – in particolare l’Unione Europea, assurdamente assente e muta – a mettersi dalla parte di chi quell’antica spirale di odio che insanguina la terra di Israele-Palestina la vuole finalmente spezzare. È quanto sogna da sempre il movimento pacifista che ha messo radici anche in Israele-Palestina (basti pensare al movimento di Peace Now o a Refusenik, a Gush Shalom, al Centro palestinese per lo studio della non violenza, alla Ong Our Rights di Gerusalemme): proprio ora, in questo momento così tragico, se ne coglie tutta la lungimiranza e la necessità di rafforzarlo e rilanciarlo. E le possibilità ci sono: è eloquente quanto ha dichiarato Eran Nissan, leader dell’organizzazione progressista Mehazkim, a Mao Valpiana, presidente della Rete Italiana Pace e Disarmo, che ne ha riportato le parole in un servizio pubblicato sul Manifesto: “Dopo il 7 ottobre, in Israele i partiti del controllo e dell’apartheid hanno fallito la loro narrazione. Ora c’è la possibilità per il partito dell’uguaglianza, che è cresciuto enormemente con grandi manifestazioni maggioritarie, di offrire una via d’uscita, per una terra che deve essere condivisa tra i due popoli”.

Ecco, “una terra che deve essere condivisa tra i due popoli”. È questo il faro da seguire. Il primo passo non può che essere il cessato il fuoco immediato. E poi lavorare tutti insieme per isolare, fino a togliere loro ogni seguito, sia Hamas, che vorrebbe cancellare Israele, sia i falchi israeliani che sembrano ispirarsi all’Eretz Israele dei “confini biblici”, dove non c’è posto per i palestinesi o altri arabi. Lavorare, in sostanza, per una grande operazione di verità e giustizia che porti chiaramente alla luce tutto quanto è accaduto in tanti anni: una sorta di “resa dei conti” pacifica ma estremamente rigorosa nella quale ciascuno riconosca le proprie responsabilità e ne tragga il monito per costruire un futuro diverso, fatto di pace e coesistenza. Fianco a fianco: poco importa se secondo la formula “due popoli, due stati” o quella di “una terra, due popoli”. L’una non esclude l’altra: anzi, la prima potrebbe diventare il viatico per la seconda.

È un’utopia? Un sogno irrealizzabile? Così si è sempre obiettato finora a chi cercava di introdurre questo tipo di discorso, facendo notare che gli interessi in campo in quella terra martoriata e contesa vanno in tutt’altra direzione. Che in quell’angolo di Medio Oriente si gioca una delle partite fondamentali per l’egemonia perseguita sia da potenze planetarie come gli Stati Uniti, la Russia o la Cina, che regionali, antiche o emergenti, come l’Arabia, l’Iran, la Turchia, l’Egitto. Israele stesso. È vero, la “realpolitik” guarda alle mosse di tutte queste potenze e ne trae le conclusioni. Ma è proprio la realpolitik ad aver portato alla tragedia immane che si sta vivendo. E allora forse, per arrivare a una “resa dei conti” rigorosa ma assolutamente non violenta, che consenta di ripartire per costruire la pace, è più realistico affidarsi a questa utopia. Che era anche l’utopia di Framma. Mandela, nel Sud Africa sull’orlo di una guerra civile che rischiava di distruggere il paese, ha scelto questa via in apparenza debole e perdente. E ha avuto ragione.

Questo servizio è stato pubblicato anche da Psicologiaradio

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