Lei fa parte del Comitato Nuovi Desaparecidos. Di cosa vi occupate e come interviene questo Comitato sulla questione dei profughi, come lei ha scritto, in “fuga per la vita”?
Nel 2015, quando il nostro comitato ha cominciato a operare, risultavano 35-40 milioni di profughi dal Sud del mondo. Ora, secondo l’ultimo censimento dell’Unhcr, sono più di 100 milioni. Cento milioni di persone che rischiano la morte per poter vivere: perché è la loro stessa terra a scacciarli. Ecco perché “fuga per la vita”. È evidente che si tratta di un fatto epocale, un enorme problema strutturale che richiede interventi altrettanto strutturali. La politica occidentale, in particolare dell’Europa e dell’Italia, lo ha affrontato invece come una “emergenza” e dunque una questione temporanea e di sicurezza. E infatti, pur occupandosi di immigrazione, non ha al centro i profughi/migranti, le persone e i motivi che le costringono o comunque le spingono a fuggire dalla propria terra: il focus è fare in modo che queste persone non arrivino. Moltiplicando chiusure o respingimenti e costruendo muri. A qualsiasi costo e a prescindere dalla sorte di chi resta fuori. Le migliaia di morti che si stanno registrando sulle vie di fuga verso l’Europa, oltre 32 mila dal 2015, sono la diretta conseguenza di questa politica, in contrasto con il diritto internazionale, la “legge del mare”, le convenzioni di tutela dei rifugiati, la stessa carta universale dei diritti umani. Ne consegue che, a nostro avviso, si sta commettendo da anni un crimine di lesa umanità. Il Comitato intende denunciare tutto questo, sollevando di fronte alle corti di giustizia, sia internazionali che europee o italiane, quanti più casi specifici possibile, in modo da evidenziare le responsabilità, singole e collettive, e rompere la coltre di “silenziamento” che copre i motivi di fondo e le dimensioni enormi della strage in corso. E infatti nella nostra attività, proprio per poter arrivare con elementi concreti a una corte di giustizia, è essenziale un accurato lavoro di “raccolta dati”, che viene svolto giorno per giorno, documentando, ad esempio, il numero delle vittime, gli arrivi, i respingimenti, i naufragi, i mancati soccorsi, gli accordi internazionali che favoriscono anziché combattere il massacro, ecc. Ecco perché “nuovi desaparecidos”. Si tratta di far emergere persone, nomi, episodi, responsabilità. Di dar voce, in una parola, alle vittime del popolo migrante fatte “sparire” dall’attenzione. Come a suo tempo i “desaparecidos” della dittatura argentina.
Tra i paesi da cui scappano più persone e famiglie ci sono alcune aree dove la responsabilità occidentale è ancora oggi rilevantissima. Tra i vari si potrebbe citare l’Eritrea, l’Afghanistan, il Sudan, la Libia, il Mali e lo Yemen. Cosa sta accadendo in questi paesi? Da cosa scappano famiglie intere?
Le situazioni di crisi da cui i profughi sono costretti a fuggire si moltiplicano. Si tratta di guerre, dittature, terrorismo, persecuzioni ma anche carestie, siccità, disastri ambientali collegati ai cambiamenti climatici. Gli Stati citati nella domanda ne sono un esempio antico ma che continua e si rinnova di continuo: l’Eritrea è da 30 anni sotto il giogo di una dittatura che ha cancellato ogni forma di libertà e ruba la vita ai suoi giovani con un servizio militare a tempo pressoché indefinito. L’Afghanistan è in guerra in pratica dal 1978 con la rivolta contro il governo filosovietico e la prima ascesa al potere dei talebani, ora di nuovo al governo in seguito alla precipitosa ritirata degli Usa dopo i vent’anni di conflitto seguito all’attentato alle torri gemelle nel 2001. La Libia è nel caos totale dalla caduta di Gheddafi nel 2011. In Mali non si è mai risolta, nonostante cambi di governo e colpi di stato, la rivolta scoppiata nel 2012 guidata da gruppi fondamentalisti islamici. Lo Yemen, distrutto da una guerra che dura dal 2015, è considerato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità l’emergenza umanitaria più grave degli ultimi anni. E continua così. Nella fascia subsahariana che va dal Mar Rosso all’Atlantico, negli ultimi due anni si sono susseguite guerre e colpi di stato che hanno interessato il Sudan, il Ciad, il Niger, il Burkina Faso fino alla Guinea e al Gabon. E mentre si spara e cambiano i regimi in quella stessa fascia, in buona parte del Sahel, si sono moltiplicate le carestie e la redditività dei terreni agricoli si è ridotta fino a punte dell’80 per cento a causa di una molteplicità di fattori legati al cambiamento climatico, a cominciare dalla siccità fino a due enormi invasioni di locuste. In questo quadro disastroso continua in tutta l’area il grande gioco, di sapore coloniale, per l’egemonia da parte delle grandi potenze, negli ultimi tempi con presenza e influenza crescenti della Russia e della Cina a scapito degli Usa, della Francia e altre nazioni occidentali. Quasi tutti quei recenti colpi di stato, in particolare, si sono giovati del profondo malessere sociale in realtà dove i governi, formalmente democratici ed eletti, svolgevano una politica più attenta agli interessi occidentali che a quelli della popolazione. Basti citare il caso del Gabon, dove il potere era da decenni nelle mani della famiglia, legatissima alla Francia, di Ali Bongo Ondimba, il presidente deposto il 30 agosto scorso. O, viceversa, basti pensare alla sorte toccata ai governi che hanno cercato di uscire da questi schemi, come quello guidato nel Burkina Faso dal presidente Thomas Sankara, un leader carismatico per tutta l’Africa, assassinato nel 1987. È comprensibile, anzi normale, che si cerchi di scappare da situazioni del genere.
Lei ha più volte denunciato le politiche di esternalizzazione e militarizzazione delle frontiere italiane ed europee. Cosa intende con questi concetti? Ci fa qualche esempio di esternalizzazione e delle conseguenze determinate sulla vita dei profughi?
È la parte più subdola della politica di chiusura e respingimento a cui accennavo. Si basa su una serie di accordi internazionali con numerosi Stati africani o del Medio Oriente ai quali si affida il compito di “gendarmi dell’emigrazione”, in modo che siano le loro polizie a bloccare i migranti prima ancora che riescano a imbarcarsi oppure in mare se sono riusciti a partire dal Nord Africa. Si tratta, in sostanza, dello spostamento sempre più a sud delle frontiere dell’Europa, che vengono così “esternalizzate” di fatto, affidandone la sorveglianza agli Stati terzi aderenti all’accordo in cambio di finanziamenti e aiuti. Poco importa, poi, quali metodi usino questi Stati per rendere più o meno “inviolabili” queste frontiere. Poco importa, in concreto, di tutto quello che ne deriva: lo stesso traffico di esseri umani che è la conseguenza diretta della mancanza di canali legali di immigrazione, i morti nel deserto o nei naufragi per mancati o ritardati soccorsi, la detenzione in autentici lager, i maltrattamenti, i ricatti. L’importante è che tutto questo avvenga lontano, all’oscuro dell’opinione pubblica occidentale. E nella subdola convinzione (o nella speranza) che gli eventuali reati commessi – dai respingimenti di massa indiscriminati ai crimini di lesa umanità – ricadano solo sugli esecutori materiali e non anche sui “mandanti” europei, quanto meno come complici.
Secondo un recente accordo tra il governo italiano e quello albanese, i profughi soccorsi in mare da navi italiane saranno portati in due strutture in Albania ma gestite dall’Italia. Quali sono le caratteristiche di questo accordo e qual è la sua opinione al riguardo? A cosa assisteremo se dovesse essere realizzato questo nuovo impegno del governo Meloni?
Quell’accordo, in estrema sintesi, è un bluff che esporta un lager. Un lager perché si tratta di costruire in Albania, sotto gestione italiana, un Cpr: centro per il rimpatrio dei migranti a cui non è riconosciuto il diritto di accoglienza. In sostanza, una struttura identica a quelle già in funzione in Italia: prigioni di fatto dove la stragrande maggioranza degli ospiti finisce senza aver commesso alcun reato e meno che mai in base alla condanna emessa da una corte di giustizia, ma solo in esecuzione di un provvedimento di polizia, con la prospettiva di restarci fino a 180 giorni e senza nemmeno i normali diritti dei detenuti negli istituti di pena. Le proteste e addirittura le rivolte per questa morte civile nei Cpr sono fin troppo note. Così come i tanti suicidi di chi non ce l’ha fatta più a sopportare. Un bluff perché, alla luce dell’impossibilità pratica di effettuare i rimpatri (che è un dato ampiamente accertato) i migranti rinchiusi nel Cpr in Albania finiranno fatalmente per essere portati in Italia alla scadenza del periodo di detenzione: Tirana è stata categorica su questo punto. In più, tutta l’operazione rivela una malcelata mentalità coloniale. Si è deciso e ottenuto, infatti, di estendere la sovranità italiana al pezzo di territorio albanese (cioè di un altro paese) dove sorgeranno le strutture, come ai tempi delle colonie. Certo, non inviando reparti militari ad occuparlo ma dando in cambio un bel pacchetto di euro e soprattutto l’impegno a difendere a spada tratta la domanda d’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea. Ed è noto come, in alternativa alle armi, anche denaro e promesse sono sempre stati un’arma del colonialismo.
Anche la Finlandia ha recentemente alzato un muro per fermare i profughi che potevano arrivare nel suo territorio. Qual è la sua opinione a riguardo e cosa si rischia di provocare con quest’ulteriore barriera.
Non stupisce la decisione presa un anno fa dalla Finlandia di costruire 250 chilometri di muri sul confine con la Russia e ora di chiudere i 4 principali varchi di frontiera. La giustificazione è stata la “necessità di difendersi da Putin” il quale, per rappresaglia contro l’ingresso finlandese nella Nato, starebbe programmando un'invasione di migranti africani e mediorientali attraverso il territorio russo. La prova sarebbe il forte aumento di ingressi irregolari nelle ultime settimane. In realtà questo “forte aumento” di ingressi irregolari si riduce a poche centinaia: una cifra irrisoria rispetto a tutta l’Europa mediterranea. E si tratta di profughi in fuga da crisi terribili come l’Afghanistan, lo Yemen, la Siria, la Somalia, il Kurdistan. Ma Helsinki non sembra essersi posta minimamente questo problema. C’è da credere, allora, che la proclamata invasione sia solo un pretesto da strumentalizzare, così come è avvenuto in numerosi altri paesi europei. Che la Finlandia, cioè, si sia posta semplicemente in linea con la politica europea di chiusura e respingimento nei confronti dei migranti a prescindere dalle loro storie e dalla loro sorte. Quella politica, va ricordato, che tradisce giorno per giorno i valori fondanti dell’idea stessa di Europa.
La costruzione di barriere anche lungo le vie di terra sono una costante. La rotta balcanica, ad esempio, è battuta da donne, uomini e bambini che provengono da aree in cui i diritti fondamentali e relativa sopravvivenza sono gravemente compromessi. Cosa accade su quella rotta e qual è il ruolo svolto dall’attuale governo?
La via balcanica è l’equivalente delle tre rotte del Mediterraneo, in particolare di quella del Mediterraneo centrale. Anche qui, via terra, vale il principio del respingimento a priori, assai spesso con estrema violenza, con l’aggravante che a esercitare questa violenza sono direttamente le polizie di Stati Ue, come la Slovenia e in particolare la Croazia ma, sulla frontiera dell’Evros con la Turchia, anche la Grecia. Lo dimostrano numerose denunce e documentatissime inchieste delle Ong. Non c’è dubbio che la grande maggioranza dei migranti che percorrono questa rotta ha diritto a una forma di tutela internazionale: vengono per lo più da paesi come l’Afghanistan, la Siria, il Kurdistan, l’Iraq. Eppure ogni Stato situato lungo questo itinerario tende a respingerli oltre la frontiera più a sud: la Slovenia verso la Croazia, la Croazia verso la Bosnia, e così via. Non fa eccezione l’Italia, che ha militarizzato il confine orientale con la Slovenia e ricorre di frequente alle cosiddette riammissioni, respingimenti mascherati contro i quali si è pronunciata più volte la magistratura ma che sono stati riesumati, dopo una sosta di pochi mesi, dal governo Meloni.
Questo insieme di provvedimenti sono collegabili con il Patto europeo per le Migrazioni al momento in discussione a Bruxelles e che entro giugno del 2024 la Commissione europea dovrà approvare? Di cosa si tratta e quali conseguenze determinerà?
C’è solo da sperare in qualche ripensamento. Ma le premesse non ci sono. Con il pretesto di ripristinare Schengen, il criterio guida resta quello di rinforzare e sbarrare le “frontiere esterne” dell’Europa. Il che fa pensare quanto meno alla conferma, se non all’ampliamento, di tutti gli accordi di esternalizzazione e al prolungamento o al rafforzamento dei muri edificati lungo i confini. Si tratta di valli fortificati d’acciaio e filo spinato, alti fino a 10 metri (come un palazzo di tre piani e mezzo), rafforzati non di rado da strumenti tecnologici che segnalano qualsiasi movimento. Si è cominciato a costruirli nelle enclave spagnole di Ceuta e Melilla all’inizio degli anni Duemila e si è continuato, fino a raggiungere una lunghezza complessiva di circa duemila chilometri. Una nuova cortina di ferro sparsa in tutta Europa e concentrata in particolare proprio sulla via balcanica.
Alcuni anni fa lei ha denunciato un fatto inquietante, ossia l’assunzione da parte di donne, ad esempio eritree, in fuga dal loro paese, di dosi massicce di anticoncezionali. Cosa accadeva e significava secondo lei questo drammatico fenomeno? Questa inchiesta ha fatto il giro del mondo perché ripresa da numerose testate giornalistiche. In Italia invece non se ne è parlato affatto. Perché?
È una tragedia terribile nella già terribile tragedia dei migranti. Quelle ragazze assumevano e, per quanto ne so, continuano ad assumere quelle dosi massicce di anticoncezionali perché mettono in conto che nella loro fuga per la vita hanno mille possibilità di essere stuprate dai trafficanti prima di tutto ma anche da uomini delle forze di sicurezza dei paesi che attraversano. Nei lager libici, ad esempio. E cercano allora che questa violenza orrenda non abbia come conseguenza anche la nascita di un bimbo indesiderato. A portare alla luce questo crimine sono state indagini condotte dalla missione Onu in Libia ma prima ancora da alcuni medici della Croce Rossa. E un segnale veniva anche dalle non poche donne sole che arrivavano in Europa in stato di gravidanza. In particolare in Italia. Ci sarebbe stato da aspettarsi, allora, un atteggiamento quanto meno di attenzione e grande umanità. Invece è passato tutto quasi sotto silenzio. Perché? Mi viene da pensare perché quelle ragazze erano e sono la testimonianza vivente di quanto accade nell’inferno dei lager libici. E dunque una condanna esplicita della politica di muri e respingimenti condotta dall’Europa e dall’Italia che intrappola i migranti in quell’inferno.
Avrebbe mai immaginato di ascoltare ministri e presidenti del Consiglio parlare di “sostituzione etnica”, “ceppo italico”, “blocco navale” e “carico residuale”? Che politica oggi governa il Paese su temi centrali che riguardano il rapporto del potere con l’umano e l’organizzazione e affermazione dei principi fondamentali della democrazia contenuti nella relativa Carta Costituzionale?
Certamente no. Ognuna di quelle affermazioni – e ancora di più la difesa che ne è stata fatta dalla parte politica da cui provengono, ma non solo – è un attacco alla nostra Costituzione e ai valori di uguaglianza, libertà, solidarietà, giustizia sociale che ne sono alla base. Vedo, in quelle affermazioni spesso di sapore razzista, la cartina di tornasole di un progetto che mira a cambiare radicalmente la struttura democratica del Paese e a cancellare progressivamente i valori dell’antifascismo da cui è nata. Segnali preoccupanti sono, in questo senso, il progressivo svuotamento del ruolo del Parlamento, sempre più emarginato fin da ora con il moltiplicarsi dei decreti sottratti di fatto al suo controllo, e di quello della Presidenza della Repubblica, che verrebbe ridotta a una pura funzione di rappresentanza se dovesse passare la proposta del premierato. Si tratta di segnali di una visione quanto meno “autoritaria” della politica, con un premier dotato di poteri senza contrappesi efficaci e praticamente senza alcun reale controllo. Va in questa direzione anche la costante polemica contro la magistratura, i sindacati, la stampa libera… Sono molti, insomma, gli elementi che inducono a pensare che sia in corso un attacco all’impianto stesso della nostra democrazia. Suonano quanto mai attuali, allora, le parole di Primo Levi quando ammoniva che “ogni epoca ha il suo fascismo”. Ecco, c’è da temere che l’obiettivo sia quello di creare una società, un’Italia, a marcata gerarchia sociale attraverso una serie di corporazioni. Una società dove diritti e libertà non sono uguali per tutti, ma dipendono dalla corporazione a cui si appartiene.