Da Popoli e Missione: Cambiamenti climatici in Africa: ‘early warning’ ma non per tutti

Giornalista professionista dal 2005, si occupa di diritti umani, economia predatoria in Africa e lotta alla povertà. Ha lavorato nelle agenzie di stampa, da Agi, a Reuters ad Adnkronos.
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08 settembre 2025

L’iniziativa Early Warnings for All delle Nazioni Unite nel 2022 promuoveva il monitoraggio dei cambiamenti climatici per lanciare sistemi di allerta precoce. Ma in Africa, dove sarebbe più necessario, il progetto è ancora in grave ritardo.

La difesa dai cambiamenti climatici appare ardua per l’Africa. È vero che le scelte politiche in merito arretrano in tutto il mondo in questa stagione in cui i principali attori internazionali sembrano sempre più incoscienti, quando non apertamente negazionisti, sulla minaccia del global warming.

Tuttavia, come in tanti altri aspetti della convivenza internazionale, il continente africano paga il prezzo più alto, con catastrofiche conseguenze di siccità, inondazioni, cicloni tropicali e ondate di calore, di una situazione della quale ha meno responsabilità storiche delle conseguenze attuali.

In questo scenario sconfortante si segnala anche l’ancora insufficiente attuazione dell’unica possibile forma di protezione finora individuata, cioè l’iniziativa Early Warnings for All (Allerta precoce per tutti) lanciata dalle Nazioni Unite nel 2022, mirata a garantire che ogni persona sulla Terra sia protetta da sistemi appunto di allerta precoce entro il 2027.

La maggior parte dei 30 Paesi destinatari prioritari dell’iniziativa si trova in Africa.

Con il supporto della World Meteorological Organization-Wmo, il progetto prevede di realizzare roadmap nazionali per rafforzare infrastrutture di allerta precoce, sviluppare le capacità e migliorare la preparazione delle comunità locali.

Intanto gli eventi estremi stanno aumentando in frequenza e intensità negli ultimi anni, compromettendo i mezzi di sussistenza, sconvolgendo gli ecosistemi e compromettendo i già scarsi progressi nello sviluppo.

Secondo la WMO, i Paesi africani stanno perdendo in media dal 2 al 5% del Prodotto Interno Lordo (Pil) e molti sono costretti ad impiegare fino al 9% dei loro bilanci per rispondere agli eventi climatici estremi.

Le proiezioni più attendibili concordano nello stimare che entro il 2030 fino ben oltre 100 milioni di africani in povertà estrema subiranno eventi catastrofici di questo tipo, se non saranno prese misure adeguate.

Ciò comporterà non solo un significativo aumento di vittime, ma anche ulteriori oneri per gli sforzi di riduzione della povertà e ostacolerà significativamente la crescita.

Il lavoro da fare è tanto e il ritardo si è già accumulato fin troppo.

Oltre il 60% del territorio africano è sprovvisto di adeguati sistemi di osservazione meteorologica e climatica. Molti Servizi Meteorologici e Idrologici Nazionali (Nmhs) non dispongono di sufficienti risorse finanziarie, ed equipaggiamenti adeguati.

L’accesso alle informazioni di allerta precoce è limitato e le comunità vulnerabili, in particolare nelle aree rurali e remote, spesso non dispongono di informazioni climatiche tempestive e accessibili, adattate al loro contesto locale.

La situazione generale è aggravata inoltre dalla mancanza di coordinamento tra investimenti e sostegno alle attività legate al controllo del clima.

Ciò ha portato a un’erogazione inefficace dei servizi climatici e a una loro scarsa integrazione nei quadri nazionali di sviluppo e gestione del rischio di catastrofi, limitando l’adattamento sostenibile delle popolazioni.

Eppure si starebbero registrando alcuni risultati positivi, anche se il condizionale sul successo dell’iniziativa resta d’obbligo, dato che i finanziamenti chiesti dall’Onu restano finora palesemente insufficienti, in linea purtroppo con l’arretramento dei principi di multilateralità e cooperazione propri del Diritto internazionale.

Di tale arretramento si mostrano ormai incuranti i principali attori internazionali, a partire dalle cosiddette democrazie occidentali che un tempo di quel diritto furono a fondamento e che oggi sembrano ricadere in quella piaga dei nazionalismi miopi ed egoistici all’origine di tutti gli orrori degli ultimi secoli.

Anche questo, forse soprattutto questo spiega il generale ritardo africano nella dotazione di strumenti digitali, nell’estremo paradosso di ingiusto sfruttamento di un continente che delle tecnologie informatiche è il principale fornitore delle necessarie materie prime e il minor fruitore di vantaggi.

Nonostante da parte di alcuni governi continentali ci siano stati investimenti significativi, le infrastrutture digitali africane restano carenti rispetto alle esigenze della popolazione in crescita.

Per fare solo un esempio, in Africa oltre 400 milioni di persone vivono attualmente entro dieci chilometri da una rete in fibra ottica, ma la maggior parte di loro è concentrata nelle aree urbane, lasciando le regioni rurali con un accesso limitato.

Siamo cioè di fronte a un crescente “divario di utilizzo”, dove un numero crescente di africani è coperto da reti a banda larga, ma non le usa a causa di problemi di accessibilità economica e della mancanza di infrastrutture che raggiungano le loro comunità.


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